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sábado, 10 de febrero de 2024

LA PERSECUCIÓN A LA IGLESIA EN ISTRIA DURANTE EL TITISMO

Traducción del artículo publicado en RADIO SPADA.
    
Chiesa Cattolica e persecuzioni titine in area istriana e balcanica nel secondo dopoguerra: Stato della ricerca, evidenze, nuovi sviluppi di indagine
   
La duplice operazione
Nell’immediato secondo dopoguerra il capo delle milizie iugoslave, Josip Broz[1] (nome di battaglia: «Tito»), conquistato il potere politico a livello centrale, dette ordini ai suoi fiduciari territoriali e alla polizia segreta (l’OZNA)[2] in merito alla strategia operativa da seguire. Ogni avversario, a qualsiasi livello, doveva essere neutralizzato nel più breve tempo possibile. Unitamente a ciò, erano da colpire tutte quelle realtà locali ritenute a vario titolo «diverse», quindi anche le aggregazioni sociali caratterizzate da radici e cultura italiane.
   
Si attuò in tal modo un’azione militare (ufficiale e ufficiosa) che seguì due diversi indirizzi operativi.
1) Da una parte, sul piano bellico, furono eliminati i nemici di guerra e i loro collaborazionisti. I soldati ricevettero gli elenchi delle persone e dei luoghi da colpire. Inoltre, molti arresti furono possibili perché le forze alleate occidentali (inglesi) riconsegnarono alle milizie titine quanti si erano arresi alle loro divisioni per sfuggire alle forze di Belgrado.[3] Nei mesi successivi le organizzazioni umanitarie trovarono nei campi di internamento jugoslavi un numero limitato di prigionieri rispetto al totale dei soggetti fermati (elevato).
2) Dall’altra – aspetto che si volle secretare – le milizie jugoslave attuarono delle pulizie etniche che utilizzarono più procedimenti. Un primo percorso riguardò le uccisioni sommarie di cittadini inermi considerati «nemici del popolo»[4] perché non comunisti. Un’altra strada passò per i campi di concentramento. Ci fu, ancora, l’opzione che utilizzò le foibe (cavità carsiche) ove gettare i corpi di innocenti (a volte ancora vivi) eliminati a gruppi. Non mancarono poi i sistemi oppressivi mirati a provocare il trasferimento forzato di popolazioni. Si sviluppò da qui il lungo esodo giuliano (Istria), dalmata (Dalmazia), fiumano (Fiume).[5] La popolazione autoctona di etnia italiana fu costretta ad abbandonare terre che abitava da epoche precedenti il Secondo Conflitto Mondiale.[6] 
    
Tito durante il periodo come capo dei partigiani nel suo quartier generale sull’isola di Vis (Lissa) Da sinistra: Vladimir Bakarić, Ivan Milutinović, Edvard Kardelj, Tito, Aleksandar Ranković, Svetozar Vukmanović, Milovan Đjilas
   
I riscontri su violenze ed espulsioni per chiudere la questione delle minoranze
Nel migrare del tempo, storici e archivisti sono riusciti a individuare una serie di documenti che attestano la prima e la seconda operazione citate in precedenza. Per la prima sono significative le direttive di guerra e le dichiarazioni rilasciate dopo il conflitto da colui che fu a capo dell’OZNA[7]: Aleksandar Ranković, detto Leka.[8] 
 
Ad esempio, in un telegramma ai vertici OZNA della Croazia dopo la presa di Zagabria (9 maggio 1945), scrisse:
«Il vostro operato a Zagabria è insoddisfacente. In dieci giorni dalla liberazione a Zagabria sono stati fucilati solo duecento banditi.
   
Questa esitazione nel pulire Zagabria dai criminali ci sorprende. Avete fatto tutto l’opposto di quanto vi è stato da noi ordinato, perché abbiamo detto di lavorare in modo rapido ed energico, e di finire tutto nei primi giorni.
   
Vi siete dimenticati che Zagabria conta ora quasi un milione di abitanti e vi si trova gran parte dell’apparato “ustaša” che vi ha trovato riparo fuggendo dall’interno con l’avanzata del nostro esercito.
   
Fatta eccezione per l’arresto di esponenti di spicco del HSS[9] contrari al nostro movimento, o che hanno attivamente lavorato per gli “ustaše” […] può essere utilizzato per quanto riguarda il loro smascheramento.[10] Tuttavia, il capo della seconda sezione[11] di Zagabria si permette di avere una propria posizione in merito. Abbiamo già provveduto a destituirlo e vi si chiede di suggerire un altro.
   
Questo telegramma va mostrato a Vlado.[12] Confermate la ricezione della presente e cercate di mettervi più spesso in contatto con noi. Ranković».[13] 
  
Aleksandar Ranković fece inoltre, nel dopoguerra, anche delle dichiarazioni che attestano le eliminazioni di ogni avversario. Nel giugno 1951, in un discorso al IV Plenum del Partito Comunista (pubblicato poi sul quotidiano di Belgrado «Politika»), ammise che – dal 1945 al 1951 – erano transitate per le prigioni jugoslave 3.777.776 persone (su una popolazione di circa 13 milioni di abitanti). I «nemici del popolo» eliminati furono circa 568.000 (in gran parte nei primi mesi del 1945). Con riferimento all’alto numero di arresti effettuati dall’UDBA nel 1949, Ranković riconobbe che il 47% di essi furono arbitrari.[14] 
   
Contro gli Italiani. Il primo riscontro
Una prima fonte riguarda un «memorandum» a Tito scritto da Vaso Čubrilović nel 1944.[15] 
Questo professore e scrittore, partecipò in gioventù all’assassinio del Principe Francesco Ferdinando d’Asburgo-Este (vicenda che generò la Prima Guerra Mondiale). Nel 1937 aderì all’organizzazione nazionalista serba «Giovane Bosnia». Nello stesso anno consegnava a Tito un primo memorandum: L’espulsione degli Albanesi. In seguito, nel 1944, presentò al medesimo interlocutore un secondo documento: Il problema delle minoranze nella nuova Iugoslavia. In quest’ultimo atto si trova un esplicito riferimento agli Italiani. Al riguardo, Čubrilović afferma che «è più semplice risolvere le questioni delle minoranze tramite espulsioni in tempo di guerra come questo […]. Noi non abbiamo richieste territoriali contro l’Italia, all’infuori dell’Istria, Gorizia e Gradisca. Perciò, col diritto dei vincitori, siamo giustificati nel richiedere agli Italiani di riprendersi le loro minoranze».[16] 
  
Unitamente a ciò questo politico annotò: «Il regime fascista in Italia trattò molto male il nostro popolo in Istria, Gorizia, e Gradisca. Quando riconquisteremo quei territori [dell’Istria e Dalmazia], li dovremo rioccupare anche etnicamente allontanando tutti gli Italiani che vi si sono insediati dopo il 1° dicembre 1918».[17] 
  
Le affermazioni citate in precedenza sono significative perché trasmettono a Tito la proposta di «mandar via» gli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia nel modo più energico possibile approfittando della guerra. Tali puntualizzazioni sono poi da collegare al modo di vedere dello stesso autore. Egli, infatti, nel precedente Memorandum, aveva indicato tutta una serie di metodi illegali (incluse le soppressioni fisiche) per togliere di mezzo gli Albanesi. In definitiva, lo storico ha la prova che ogni ipotesi di strategia era sempre sottoposta a Tito perché ogni decisione finale spettava a lui.
   
Contro gli Italiani. Il secondo riscontro
Oltre il Memorandum di Vaso Čubrilović, è stato reso noto, grazie a uno studio del Dottor Marino Micich[18], un provvedimento adottato nel 1943 dalle autorità popolari jugoslave nei confronti degli Italiani. In particolare, al secondo punto di una risoluzione del Comitato popolare di liberazione provvisorio per l’Istria (CPLJI) del 26 settembre 1943, fu ribadito al secondo punto quanto qui di seguito riportato.
   
In croato: «Svi oni Talijani koji (su) se posljie 1918, godine doselili i Istru u svrhu odnarođivanja i izrabljivanja našeg naroda biti će vračeni u Italiju. O pojedinim slučajevima odlučivati će zato posebna komisija». [«Tutti quegli Italiani che si (sono) stabiliti in Istria dopo il 1918, allo scopo di denazionalizzare e sfruttare il nostro popolo saranno rimandati in Italia. Riguardo ai singoli casi deciderà un’apposita commissione»].[19] 
   
I titini e la Chiesa Cattolica
Nel contesto descritto il Governo Titino, nelle fasi del conflitto ma soprattutto nelle ore della vittoria militare, rivolse la propria attenzione anche alle diverse realtà della Chiesa Cattolica attive nel territorio jugoslavo. Nei confronti delle comunità locali, ma soprattutto nei riguardi della gerarchia e dei sacerdoti e religiosi, Tito e i suoi fiduciari mantennero (a seconda dei casi) una costante posizione di sospetto, di esplicita accusa e di violenta azione repressiva. Le autorità di Belgrado, infatti, ritenevano che la Chiesa Cattolica, essendo legata a un’autorità centrale (il Papa), con sede in un altro Stato (la Città del Vaticano), non costituiva una garanzia di sostegno al regime. Tale convinzione era aggravata dal fatto che – in linea generale – le diverse espressioni cattoliche non sostenevano l’ideologia comunista (sostenute dal Pontefice) e quindi potevano diventare cellule di una linea interna avversa alla politica titina. Scattava in tal modo un’azione militare (ufficialmente non confermata) mirata a impoverire la vita ecclesiale, e – soprattutto – a eliminare quelle figure di ecclesiastici che rappresentavano una voce critica verso il regime, e un punto di riferimento significativo per molti Cattolici.
   
Le vicende dei Vescovi in Istria [20]
 In definitiva, la Chiesa Cattolica, secondo le direttive di Belgrado, doveva essere ridotta a una presenza non pericolosa per il regime. E occorreva neutralizzare chi era definito «nemico del popolo». Sulla base di tali direttive, sacerdoti sloveni, croati e italiani subirono violenze, sopraffazioni e – in taluni casi – il martirio «in odium fidei». Nell’area istriana il clero si doveva rifiutare di obbedire al proprio Vescovo, quello di Trieste, in modo da realizzare una scissione: la diocesi di Capodistria doveva essere staccata da quella di Trieste. Le reiterate pressioni dei fiduciari di Tito portarono all’abbandono dell’Istria da parte di molti parroci, e anche all’eliminazione di presbiteri italiani. In tale contesto, non mancarono per i Vescovi dei territori oggetto di controversie politiche delle prove particolarmente dolorose. I presuli di Pola (Monsignor Raffaele Mario Radossi), di Fiume (Monsignor Ugo Camozzo), di Zara (Monsignor Pietro Doimo Munzani), di Trieste e Capodistria (Monsignor Antonio Santin) furono testimoni di realtà di violenza, di morte, e dell’esodo che, dal 1944 al 1961, coinvolse il 90% della Comunità Italiana.
    
Monsignor Raffaele Mario Radossi 
Monsignor Mario Radossi (1887-1972) era nato a Cherso (Istria). Faceva parte dei Frati Minori Conventuali. Aveva assunto il nome di Fra’ Raffaele. Fu ordinato sacerdote in Svizzera, a Friburgo, il 28 novembre 1909. Nel Natale del 1941 Pio XII lo nominò Vescovo delle diocesi riunite di Parenzo e Pola. Vi rimase fino al 1947[21].

La tragedia della guerra lo vide al suo posto, in un’Istria ove erano attivi i partigiani di Tito, sostenuti da Mosca. Nel frattempo, i militari USA lanciavano viveri e armi seguendo la logica delle alleanze. Il presule operò con energia per sostenere gli Istriani provati da continue avversità. Pregò vicino alle foibe ove furono individuati poco alla volta i resti di persone trucidate. Accarezzò i bambini. Cercò di non far crollare il coraggio dei perseguitati. A ogni partenza della motonave Toscana da Pola era là a confortare e a salutare chi abbandonava la propria terra e la propria città. Subì un attentato (scavarono una larga buca nella strada percorsa in macchina dal Vescovo per favorire un incidente).

Alla fine la Santa Sede decise di trasferirlo in un luogo più sicuro, e il 7 luglio 1948 lo mandò Arcivescovo a Spoleto. Con il penultimo viaggio della motonave Pola se ne andò anche lui, insieme ai suoi fedeli.

A Spoleto rimase 19 anni, fino al 23 giugno 1967. In questa diocesi lo seguirono, profughi, preti e seminaristi con le loro famiglie, che furono dislocati soprattutto nelle parrocchie di montagna, scarse di clero.

Un seminarista, compagno di scuola al Regionale di Assisi, Eugenio Ravignani[22], fu poi Vescovo di Vittorio Veneto, quindi Arcivescovo a Trieste. A Spoleto Monsignor Radossi, il 20 maggio 1949, promosse la pubblicazione di un vivace settimanale, «Il Risveglio». L’impostazione del periodico dimostrò chiarezza nel difendere precise posizioni, e non si esitò nel criticare anche il movimento comunista, presente in città e nel circondario.

A Spoleto, Monsignor Radossi non cessò di aiutare i profughi. I suoi interventi presso le forze governative, da lui accusate di indifferenza nei confronti del dramma della gente dell’Istria, attestano idee chiare, volontà, dignità, amor patrio. Le sue parole di denuncia della «disastrosa lacuna della grande stampa italiana per la nostra Causa» e della «stupida e ipocrita politica, che ha recato sì gran danno alla nostra Causa, e, in particolare all’Italia umiliazioni e disprezzo, poiché per servilismo essa ha mancato di difendere i figli del suo stesso sangue», non hanno cessato di mostrare vigore nell’attuale periodo storico.[23]

Con il trascorrere del tempo arrivò anche per Monsignor Radossi l’ora di dare l’addio a Spoleto. Si ritirò ai Frari di Venezia, per raggiunti limiti d’età. In seguito si trasferì nella casa di cura «Villa Maria» di Padova. La morte sopraggiunse il mattino del 26 settembre 1969.

Monsignor Ugo Camozzo
Monsignor Camozzo (1892-1977)[24] era nato a Milano. Suo padre morì quando il piccolo Ugo aveva appena tre anni. La madre tornò allora con il figlioletto nella casa paterna a Venezia. Venne ordinato presbitero nel 1915. Consacrato Vescovo di Fiume (allora diocesi italiana) nel 1938. A motivo dell’occupazione effettuata dalle milizie di Tito fu costretto all’esodo nel 1947, ultimo Italiano a ricoprire la carica di Vescovo della città.[25] Nell’estate di quell’anno rivolse ai suoi concittadini l’ultima sua pastorale terminando, nella commozione dell’addio, con queste parole:
«Fiumani, siate dignitosi nella vostra sventura. La vostra umiliazione è gloriosa, potete portarla a fronte alta e con nobile fierezza […]. Per l’ultima volta accettate la paterna raccomandazione del vostro pastore di un tempo, siate buoni, e la Provvidenza non vi abbandonerà. […] Il Venerato Crocifisso di San Vito sia per voi il vincolo spirituale che unisce i vostri cuori nella stessa fede e vita cristiana».
Terminata l’orazione venne effettuata l’operazione dell’ammainabandiera. Il Vescovo divise in tre parti il tricolore italiano per superare il controllo jugoslavo e poi, preso il breviario e salutato per sempre il Crocifisso miracoloso della Cattedrale, lasciò, da esule, la città. Una volta arrivato in Italia ricompose la bandiera, tenendola sempre con sé. Nel 1948 fu nominato Arcivescovo di Pisa. Il suo compito terminò nel 1970. Morì a Padova all’età di 84 anni, il 7 luglio 1977. Prima di concludere il suo iter terreno chiese di essere sepolto con un crocifisso e con la bandiera di Fiume.[26] La sua tomba si trova nel Duomo di Pisa, navata di sinistra, sotto l’antico dipinto della Madonna Nera.[27]
  
Monsignor Doimo Munzani
Monsignor Doimo Munzani (1890-1951)[28] era nato a Zara, in Dalmazia (allora Austria-Ungheria). Ricevette la nomina a Vescovo nel 1926. Aveva 35 anni. Per 22 anni fu l’Ordinario di Zara. Conosceva perfettamente il croato. Fine teologo. Le sue Lettere pastorali anticiparono alcune affermazioni del Concilio Vaticano II. Valido organizzatore della vita diocesana. Fu testimone di 54 bombardamenti che lo costrinsero a ritirarsi nella cappella mortuaria del cimitero. Il 7 marzo del 1945 venne arrestato dai comunisti jugoslavi. Deportato prima a Lissa e poi a Lagosta. Alla fine lo liberarono. Tornato a Zara, proseguì le funzioni pastorali.

L’11 dicembre del 1948, questo presule, malgrado le sollecitazioni del clero croato e delle stesse autorità iugoslave del tempo[29], non volle rimanere a capo di una diocesi che aveva perduto gran parte dei suoi fedeli. Per tale motivo, divenendo un esempio significativo, seguì con sofferenza e dignità il suo popolo in esilio. Rimase per tutti «l’Arcivescovo di Zara», anche quando gli fu affidata la sede antica di Tiana (Sardegna). Venne definito l’Arcivescovo «itinerante», per l’attività pastorale nei campi profughi sparsi in Italia, sempre vicino agli esuli giuliano-dalmati. Morì a 61 anni, nella Cattedrale di Oria (Brindisi), mentre stava predicando. Si accasciò ai piedi dell’altare del Santissimo Sacramento pronunciando per sé il Miserere.[30]
  
Monsignor Antonio Santin [31]
Monsignor Santin (1895-1981)[32] era nato a Rovigno (Istria). Fu cappellano a Momorano, parroco a Pola. Vescovo di Fiume nel 1933. Raggiunse il capoluogo del Quarnero con la mamma (il padre era morto), la sorella Benedetta e il fratello Giovanni. Vi rimase cinque anni. Il 16 maggio 1938 ricevette la nomina a Vescovo di Trieste e Capodistria. Nello stesso anno (il 18 settembre) Mussolini annunciò proprio a Trieste la nuova legislazione antiebraica. La situazione era ormai segnata da violenze e criticità. Il 15 aprile 1943 Monsignor Santin indirizzò, insieme agli altri Vescovi della Venezia Giulia, un Memoriale al Duce denunciando le violenze del regime contro i fedeli sloveni e croati. Tra il settembre 1943 e il maggio 1945 intervenne per cercare di salvare la vita agli Ebrei e agli antifascisti, italiani e slavi, imprigionati dai Tedeschi e dai repubblichini. Intanto gli eventi si susseguivano tragici. 1) Da una parte, il tracollo militare tedesco segnò l’inizio di operazioni mirate a eliminare gli sconfitti. 2) Dall’altra, ebbe inizio in Venezia Giulia una fase di 40 giorni segnata da sopraffazioni, uccisioni, deportazioni a opera delle milizie di Tito. Il territorio ove Monsignor Santin era pastore fu diviso dalla «Linea Morgan».[33] Tale demarcazione venne concordata a Belgrado il 9 giugno del 1945. Con questa intesa, si creò una Zona A controllata dall’Amministrazione militare anglo-americana (Trieste, Gorizia e Pola), e una Zona B affidata all’Amministrazione militare jugoslava (le zone rimanenti della Venezia Giulia).

In tale contesto si verificarono delle sanguinose vicende. Nella Zona B era attivo un movimento comunista che spingeva verso l’annessione alla Iugoslavia. Tale iniziativa politica mirava anche ad allontanare, o a eliminare (foibe[34]), quanti potevano diventare dei riferimenti in tema di opposizione a Belgrado. In tale ambito si collocò pure una politica di aggressione verso molteplici ecclesiastici. Il 19 giugno del 1947 Monsignor Santin rischiò un linciaggio quando decise di recarsi a Capodistria (si festeggiava il patrono locale, San Nazario). Sulle scale del seminario cittadino si consumò l’aggressione del presule, il quale fu pesantemente colpito e percosso a sangue.[35]

Il Vescovo, comunque, non indietreggiò davanti ai problemi politici del momento. Le sue omelie in Cattedrale divennero anche un’occasione per denunciare le violenze perpetrate dalle milizie di Tito.[36] Questa linea pastorale che respingeva compromessi ebbe conseguenze. Furono infatti adottate misure repressive a danno del clero nella Zona B. Si arrivò in tal modo a una situazione persecutoria. Diversi sacerdoti, i cui nominativi erano annotati nelle liste dell’OZNA, furono costretti ad abbandonare le proprie residenze. La cronaca del tempo registra pure aggressioni sul sagrato di varie chiese. Ci furono comunque anche processioni di fedeli che sfidarono le autorità jugoslave per reclamare (con esito positivo) la liberazione dei propri sacerdoti dalle carceri. Questo clima di terrore colpì i preti italiani, ma anche quelli sloveni e croati.[37]

In tale contesto, Monsignor Santin scrisse pure un’invocazione al Signore per le vittime delle foibe (1959). Si riporta qui di seguito il testo.
«O Dio, Signore della vita e della morte, della luce e delle tenebre, dalla profondità di questa terra e di questo nostro dolore noi gridiamo a Te. Ascolta, o Signore, la nostra voce. Noi siamo venuti qui per innalzare le nostre povere preghiere e deporre i nostri fiori, ma anche per apprendere l’insegnamento che sale dal sacrificio di questi Morti. E ci rivolgiamo a Te, perché Tu hai raccolto l’ultimo loro grido, l’ultimo loro respiro. Questo calvario, col vertice sprofondato nelle viscere della terra, costituisce una grande cattedra, che indica nella giustizia e nell’amore le vie della pace. Ebbene, Signore, Principe della Pace, concedi a noi la Tua pace. Dona conforto alle spose, alle madri, alle sorelle, ai figli di coloro che si trovano in tutte le foibe di questa nostra triste terra, e a tutti noi che siamo vivi e sentiamo pesare ogni giorno sul cuore la pena per questi Morti, profonda come le voragini che li accolgono. Tu sei il Vivente, o Signore, e in Te essi vivono. Che se ancora la loro purificazione non è perfetta, noi Ti offriamo, o Dio Santo e Giusto, la nostra preghiera, la nostra angoscia, i nostri sacrifici, perché giungano presto a gioire dello splendore del Tuo Volto. E a noi dona rassegnazione e fortezza, saggezza e bontà. Tu ci hai detto: “Beati i misericordiosi perché saranno chiamati figli di Dio, beati coloro che piangono perché saranno consolati”, ma anche beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati in Te, o Signore, perché è sempre apparente e transeunte il trionfo dell’iniquità».[38]
  
La persecuzione di preti e religiosi in Istria [39]
Nei drammi del tempo, clero e comunità religiose si trovarono ad affrontare prove molto dure. Al riguardo, con riferimento all’Istria, Pietro Zovatto[40], in un libro, ha descritto molti episodi che rientrarono nel progetto di disarticolazione della società giuliano-dalmata da parte del nascente regime di Tito[41]. Si citano qui di seguito alcuni esempi.

Don Angelo Tarticchio
Don Tarticchio era nato nel 1907 a Gallesano d’Istria. Divenne in seguito parroco di Villa di Rovigno (Istria). Il 16 settembre del 1943[42], di notte, partigiani titini lo prelevarono a forza dalla canonica. Aveva 36 anni. Gli aggressori, dopo insulti, lo relegarono in carcere (castello dei Montecuccoli a Pisino d’Istria). Subì la tortura. Venne poi trascinato nei pressi di Gallignana. Qui, i miliziani comunisti lo uccisero con una raffica di mitragliatrice e lo gettarono in una foiba. Con lui subirono la stessa sorte 43 prigionieri legati con filo spinato. La salma di Don Tarticchio fu recuperata solo due mesi dopo. Si vide allora che gli avevano conficcato nel capo una corona di filo spinato.[43]
  
Don Francesco Bonifacio
Altre tragedie significative si collegano alla soppressione di due sacerdoti istriani: Don Francesco Bonifacio (1912-1946; Beato)[44], e Don Miroslav Bulešić (1920-1947; Beato).

Don Bonifacio, nato a Pirano d’Istria, venne ordinato sacerdote a 24 anni (27 dicembre 1936). Prima destinazione del suo apostolato fu Cittanova. In seguito, ricevette la nomina a cappellano di Villa Gardossi[45] (13 luglio 1939). Si trattava di un comune agricolo dell’entroterra (posizionato tra Buie e Grisignana). La sua attività sacerdotale si articolò in modo significativo: coro, filodrammatica, piccola biblioteca, Azione Cattolica, attività ludico-sportive per i giovani, sostegno agli anziani, presenza accanto ai malati, supporto ai meno abbienti. Nel 1940 (Italia in guerra) e nel 1943 (armistizio), il territorio di Villa Gardossi, con casolari e boscaglie, divenne rifugio di partigiani. Il fatto spiega le incursioni di fascisti (Repubblica Sociale Italiana) e di nazisti. Nel dopoguerra mutò il quadro politico della zona. L’occupazione jugoslava di territori posti in precedenza sotto la bandiera dell’Italia spinse le milizie di Tito a guardare con sospetto le persone di lingua italiana. Queste, inclusi i religiosi, erano considerate dei resistenti al regime comunista e alla sua dottrina.

Anche Don Francesco venne avvisato sui pericoli legati all’azione di miliziani comunisti. Egli era consapevole della gravità della situazione. Ne parlò con alcuni sacerdoti («mi stanno spiando»; «qualche cosa di male può accadermi») e con il Vescovo Monsignor Santin a Trieste («i capi comunisti mi fanno difficoltà e mi minacciano»). Malgrado i problemi riteneva comunque necessario restare al suo posto, non lasciare i fedeli. La sera dell’11 settembre del 1946 Don Bonifacio, dopo essersi recato a Grisignana dal suo confessore (il parroco Don Giuseppe Rocco), riprese la strada del ritorno. Lungo il percorso, come riferito da testimoni, venne avvicinato e fermato da due guardie popolari. È l’inizio del dramma. Il sacerdote fu costretto a seguire i suoi aguzzini mentre altri due miliziani si aggregavano al gruppo. Nel bosco Don Francesco venne picchiato a morte e presumibilmente infoibato. Aveva 34 anni. I suoi resti non sono mai stati ritrovati. La prima comunicazione dell’uccisione di questo sacerdote risale al 21 settembre 1946 ed è firmata dal Vescovo Santin.[46]
  
Don Miroslav Bulešić
Don Bulešić era un presbitero croato. Operò presso le parrocchie di Monpaderno e di Canfanaro, poi nel seminario di Pisino (professore e vicerettore). A causa della guerra in molte parrocchie della sua zona non era stata amministrata la cresima. Per questo motivo, Don Bulešić accompagnò nel 1947 Monsignor Jacob Ukmar[47] (delegato del Vescovo di Trieste e Capodistria per l’amministrazione di questo sacramento della confermazione) in 24 chiese diverse per la celebrazione del sacramento. Esponenti dell’amministrazione comunista, però, avevano proibito le cerimonie liturgiche.

Presso la chiesa parrocchiale di Antignana (nell’entroterra istriano), elementi del Partito Comunista impedirono l’ingresso a Monsignor Ukmar e a Don Bulešić. A Pinguente, un gruppo di oppositori bloccò le cresime a 250 ragazzi. Ci fu un lancio di uova marce e pomodori, con insulti e bestemmie. Il 24 agosto nella chiesa di Lanischie (Istria Settentrionale)[48], Monsignor Ukmar e Don Bulešić riuscirono a cresimare 237 ragazzi. Al termine della liturgia, per l’acuirsi di violente ostilità manifestate da elementi del Partito Comunista, i due sacerdoti si dovettero chiudere in canonica con il parroco, Don Stjepan (Stefan) Cek[49]. Gli oppositori, però, riuscirono a irrompere nei locali. Sgozzarono Don Bulešić. Ferirono in modo grave Monsignor Ukmar. Il parroco poté nascondersi. Al funerale le autorità comuniste vietarono ai treni, con fedeli accorsi per onorare il martire, di fermarsi. Il divieto riguardò anche le stazioni vicine.

Al processo i giudici accusarono gli ecclesiastici sopravvissuti di aver provocato gli incidenti. Ne derivarono condanne. Monsignor Ukmar, trascorso un mese in ospedale per le percosse ricevute, dovette scontare un mese di prigione. Il parroco affrontò sei anni di lavori forzati. Riguardo a Don Bulešić, il tribunale del popolo sostenne una tesi: non era provato che «fosse stato veramente ucciso». Poteva essersi «suicidato a scopo intimidatorio». Le prove, però, erano evidenti. Così, l’assassino venne condannato a cinque mesi di prigione per «troppo zelo nella contestazione».[50]
   
Beato Don Miroslav Bulešić (secondo da destra); http://www.miroslavbulesic.com/italiano.html
   
Il caso di Alojzije Stepinac[51] 
Mentre l’area istriana era segnata da questi drammi, altre tragedie si registravano nel territorio dell’ex Stato Indipendente di Croazia[52]. Per meglio comprendere le dinamiche collegate a questa entità politica è utile ripercorrere la fase storica precedente. Questa, fu segnata dalle conseguenze della Prima Guerra Mondiale (terminata nel 1918), dalle vicissitudini del Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (divenuto poi Regno di Iugoslavia), dalle tensioni tra le diverse etnie, dai movimenti indipendentisti, dallo scoppio del Secondo Conflitto Mondiale (1939), dall’avvento in Croazia del capo degli «ustaše» («insorti») Ante Pavelić[53] (1889-1959), dalla proclamazione dello Stato Indipendente di Croazia (1941). Questi fatti anticipano una successiva serie di vicende sanguinose. Quando agli inizi degli anni Quaranta il Duce («Poglavnik») Pavelić, con il sostegno del III Reich e del Governo di Roma, riuscì a controllare il territorio croato, cominciarono a verificarsi eccidi. Gli «ustaše» colpirono gli avversari interni (sostenitori di altre formazioni politiche), ma soprattutto i Serbi (legati al credo ortodosso), gli Ebrei e i Rom.
   
Si aggiunsero poi ulteriori criticità. Il regime volle «convertire» i fedeli ortodossi al Cattolicesimo (3 giugno 1941). Lo fece in modo violento. Scavalcò ogni competenza ecclesiastica di merito. Quando Pavelić si rese conto della scelta sbagliata, decise per un’altra soluzione: l’istituzione di una Chiesa Nazionale Ortodossa direttamente collegata al regime. Anche questa iniziativa, comunque, non fece che produrre tensioni e conflitti, e non ottenne i risultati sperati.
   
Il regime di Pavelić crollò nel 1945 per l’incalzare delle milizie di Tito (Generale nel 1941, Maresciallo nel 1943) e per le sconfitte dell’Asse. Da questo momento in poi si instaurò, anche in terra croata, un regime comunista (Repubblica Federativa Popolare di Iugoslavia, poi divenuta Repubblica Socialista Federale di Iugoslavia). Con l’avvento dell’amministrazione di Tito si verificò una serie di avvenimenti che seguirono due logiche.
   
1) Da una parte si vollero neutralizzare le forze militari nemiche (quelle dell’Asse e dello Stato Indipendente di Croazia, oltre ai collaborazionisti). Tale strategia di morte fu segnata da esecuzioni sommarie, eccidi (ad esempio, il massacro di Bleiburg), campi di concentramento: Borovnica, Aidussina, Škofja Loka, Maribor, Goli Otok (Isola Calva) e Sveti Grgur (Isola di San Gregorio)[54].
2) Dall’altra, si dette inizio a un segreto piano di «normalizzazione». Nell’ottica di Belgrado si doveva approfittare del momento favorevole (acquisizione di territori, e occupazione dei centri di potere) per realizzare una pulizia etnica. Tale politica provocò violenze sui civili croati, la soppressione di quanti non erano comunisti, l’eliminazione di esponenti di formazioni democratiche, il ripetuto uso delle foibe, lo svolgimento di procedimenti penali irregolari, le requisizioni di beni mobili e immobili, i messaggi intimidatori per costringere migliaia di Italiani a fuggire dalle province istriane, dalmate e della Venezia Giulia, la persecuzione di Vescovi, sacerdoti, religiosi[55], religiose[56] e laici[57].
  
Nel contesto delineato, le autorità di Belgrado cercarono in ogni modo di neutralizzare quello che consideravano l’avversario più pericoloso: l’Arcivescovo anticomunista di Zagabria, Monsignor Alojzije Stepinac[58]. Per arrivare ad avere un pieno controllo sul presule vennero seguite più strade. Si cercò di farlo trasferire in altra sede. Il disegno fallì. Si tentò allora un contatto diretto con Monsignor Stepinac per indurlo ad avvicinarsi a Belgrado, e ad allontanarsi dall’obbedienza al Papa. Anche in questo caso il no fu risoluto. A questo punto, per i dirigenti comunisti non rimase che l’ultima opzione: un processo pubblico con accuse penali. Venne così istruito un procedimento. Il presule subì l’accusa di collaborazionismo con il precedente regime (quello «ustaša»), e di aver sostenuto un’opposizione al nuovo Governo Comunista. Accanto all’Arcivescovo furono affiancati altri imputati (laici e religiosi). In tal modo il regime cercò di «dimostrare» l’esistenza di un «complotto» antistatale guidato dal presule. Le udienze durarono dal 30 settembre al 3 ottobre 1946.
   
La sentenza fu avversa all’imputato. Monsignor Stepinac venne condannato a 16 anni di lavori forzati, e alla successiva privazione dei diritti politici e civili per cinque anni. In seguito, la prigionia nel carcere di Lepoglava fu tramutata in domicilio coatto.
   
Con tali provvedimenti il regime (ma non la Chiesa) ridusse l’Arcivescovo allo stato di semplice sacerdote, «dipendente» da un parroco. Non poté più guidare la diocesi di Zagabria. Gli fu proibito di mantenere contatti con i Vescovi. Venne vietata ogni corrispondenza in entrata e in uscita (chi gli inviava lettere fu perseguitato). Si ostacolò il collegamento con la Santa Sede. In ultimo, si arrivò a istruire un secondo procedimento penale. Non si arrivò comunque al processo perché Monsignor Stepinac morì nel 1960 per l’ostruzione di alcuni tratti dell’arteria polmonare causata da trombi mobili[59]. Nel 1998 Giovanni Paolo II[60] proclamò Beato il defunto Arcivescovo di Zagabria. L’iter seguito fu quello del riconoscimento del martirio, che non richiede la constatazione di un miracolo.
   
Gli studi storici su Monsignor Stepinac
La «vicenda Stepinac», per il clamore suscitato, è stata materia di studi a favore o contro il presule. Varie informazioni sono state «manipolate» prima dal regime «ustaša» e poi da quello comunista. Negli anni del regime di Tito, in particolare, la propaganda comunista attaccò l’Arcivescovo cercando di «dimostrare» il suo comportamento falso, equivoco e antistatale. Solo dopo il crollo della Iugoslavia, superate le censure e i divieti, cominciarono a essere diffusi nuovi saggi. La storia di Monsignor Stepinac cominciò a essere letta in modo non emotivo, con uso di documenti e testimonianze. L’impulso principale lo dette il processo di beatificazione. Per scrivere la Positio, fu necessario un approfondito lavoro di ricerca storica. In tal modo si aprì la strada a ulteriori contributi. Nel 2018 l’Editrice Italiana Àlbatros ha pubblicato un testo sull’Arcivescovo di Zagabria. Chi scrive è stato l’autore dell’opera. Circa 500 pagine di testo, quasi 2.000 note giustificative, centinaia di riferimenti inseriti nell’indice dei nomi, costituiscono un apporto che trasmette dati significativi. Si trascrivono qui di seguito alcune evidenze.
   
1) Monsignor Stepinac fu una persona profondamente religiosa, attenta alle necessità del suo popolo, fedele all’insegnamento della Chiesa. I suoi scritti dimostrano un’intensa vita spirituale, una solida formazione teologica, un’evidente premura pastorale.
  
2) Sul piano socio-politico, il presule difese l’identità croata. Sostenne di questo Paese la storia, la religione cattolica, la cultura, le tradizioni e le iniziative autonomistiche. Tra i suoi interlocutori rivolse attenzione al Partito Contadino Croato[61], e interagì con il leader, Vladko Maček.[62] 
3) Sul versante ideologico, Monsignor Stepinac respinse in modo netto le dottrine totalitarie. Avvertì i fedeli sui rischi collegati a regimi che si allontanavano dalle esigenze della popolazione. In particolare, il presule avversò la dottrina hitleriana della razza, del sangue, della superiorità ariana. Già prima dello scoppio del Secondo Conflitto Mondiale il presule – pur seguendo un chiaro orientamento cattolico – non ebbe remore a interagire con i più diversi interlocutori e a contribuire a mantenere degli equilibri sociali.
   
4) Nei confronti delle potenze dell’Asse il rapporto fu critico. Monsignor Stepinac non mostrò mai delle simpatie verso il III Reich. In particolare, non rivolse particolari attenzioni ai massimi dirigenti del regime. Non sostenne i testi nazisti. Non volle mantenere canali di comunicazione con il rappresentante politico della Germania hitleriana a Zagabria. Avversò l’antisemitismo. Anche nei confronti del Governo di Roma il presule non superò mai una linea di atti formali, imposta dalle circostanze. Monsignor Stepinac, infatti, non approvò l’ingerenza mussoliniana sulle vicende croate, e disapprovò di fatto l’occupazione italiana di territori croati. Quando fu necessario intervenire per favorire operazioni umanitarie, l’Arcivescovo si rivolse in modo diretto o indiretto agli occupanti del tempo per richieste di grazia, di mutamento di condanna, di accesso ai campi di concentramento, di passaggio in luoghi dichiarati teatro di guerra.
  
5) Verso Pavelić e il movimento «ustaša» la posizione dell’Arcivescovo Stepinac non si configurò come adesione. Il presule, informato sugli eccidi in corso, si rese presto conto di un fatto. Il Poglavnik spingeva verso una linea politica che avrebbe condotto la Croazia a una situazione tragica. Mentre la stampa del tempo manipolò l’informazione riguardante i rapporti Stepinac-Pavelić (facendoli apparire ottimi), la documentazione storica fornisce dati molto diversi:
– Pavelić cercò di far allontanare Monsignor Stepinac da Zagabria; diversi dirigenti «ustaša» erano avversi al presule;
– in ripetute occasioni Pavelić scavalcò il ruolo di Monsignor Stepinac in materia ecclesiastica, e adottò decisioni che erano di esclusiva competenza della Chiesa Cattolica;
– il Duce Croato fu destinatario di molteplici interventi di Stepinac per modificare decisioni statali dagli effetti deleteri;
– l’Arcivescovo condannò la politica razziale, le operazioni sanguinarie, i campi di concentramento, le condanne a morte senza regolari processi, gli arresti immotivati;
– Monsignor Stepinac non volle mai alzare la mano destra adottando il saluto «ustaša»;
– la presenza del presule in cerimonie pubbliche fu circoscritta a eventi nazionali. Quando venne riaperto un sedicente Parlamento, l’Arcivescovo volle sedersi nel banco dei visitatori;
– pur di salvare gli Ortodossi, l’Arcivescovo evidenziò eccezioni a quanto prescriveva il Codice di Diritto Canonico. In pratica, gli Ortodossi potevano passare alla Chiesa Cattolica (Pavelić li stava obbligando con propria decisione) e, a fine conflitto, erano liberi di tornare nella Chiesa Ortodossa.
6) Nei confronti del mondo cattolico croato, Monsignor Stepinac dovette affrontare varie criticità. Mentre un gruppo significativo di fedeli rimase particolarmente vicino al proprio Arcivescovo, in altri casi si verificarono situazioni diverse:
– nella popolazione si trattò in particolare di seguire delle opportunità, delle convenienze, delle necessità;
– ci furono alcuni Vescovi, sacerdoti e religiosi (specie francescani) che sostennero il regime «ustaša»;
– si verificarono delle realtà criminose che videro anche (a vario titolo) la presenza di persone consacrate.
 
Il presule fu costretto a intervenire in diverse occasioni:
– non permise ai consacrati di iscriversi a movimenti politici, e di prendere parte a iniziative politiche;
– richiamò fedeli e consacrati ai principi del Vangelo, alle direttive dei Pontefici, ed evidenziò i drammi che si moltiplicavano per le lotte interne, per quelle inter-etniche e per gli scontri bellici;
– emise provvedimenti disciplinari nei confronti di sacerdoti e di religiosi, costringendo i responsabili di azioni condannate dalla Chiesa a cessare il proprio ruolo religioso. Una fase del processo a Monsignor Stepinac; http://ujkor.hu/content/szemben-az-arral-alojzije-stepinac-rendithetetlen-horvat-ersek
7) Nell’interazione con la Santa Sede, Monsignor Stepinac dimostrò fedeltà e applicò puntualmente le direttive di Pio XI e quelle di Pio XII. In particolare, nei documenti pastorali e nelle omelie inserì i riferimenti del magistero pontificio riguardanti: la pace, la famiglia, la vita morale, la spiritualità. L’Arcivescovo, che aveva studiato a Roma presso l’Istituto Germanico e la Pontificia Università Gregoriana, ebbe modo di incontrare Pio XII, e interagì con il rappresentante della Santa Sede inviato in area balcanica.[63] Mentre sostenne il diritto della Croazia a vivere secondo criteri di autonomia e di pace, il presule riferì anche sulle vicende dolorose in atto nel suo Paese preferendo canali di natura riservata (così da tutelarsi dallo spionaggio).
8) Verso il nuovo regime comunista l’Arcivescovo di Zagabria ebbe rapporti critici. Già negli anni della sua azione pastorale precedenti il regime di Tito, Monsignor Stepinac condannò la dottrina riguardante il comunismo ateo e materialista. Con il sopravvento dei partigiani di Belgrado sulle forze croate si insediò un nuovo Governo Locale. Il presule fu al centro di inchieste. In questo periodo egli condannò in modo ufficiale le nuove direttive comuniste per i danni che, a motivo di queste ultime, subivano le diverse iniziative della Chiesa Locale (scuole cattoliche chiuse o controllate, tipografie inattive, insegnamento religioso ridotto al minimo, dottrina morale impoverita da correnti di pensiero non in sintonia con l’orientamento cattolico).
   
La situazione precipitò con un primo arresto dell’Arcivescovo a cui seguì un secondo arresto[64], un pubblico processo (inizio: 30 settembre 1946), una condanna a 16 anni di lavori forzati e alla successiva privazione dei diritti politici e civili per la durata di cinque anni. In tali occasioni la linea del presule rimase integra. Egli non deviò dalle sue posizioni. Rifiutò di organizzare una Chiesa Nazionale vicina al regime comunista e staccata dal Pontefice Romano (come avrebbe voluto Tito). Respinse anche l’idea di lasciare la Croazia per trasferirsi altrove (come aveva chiesto Belgrado alla Santa Sede). Dopo diversi anni di carcere, Monsignor Stepinac (anche per le pressioni internazionali) poté usufruire di un mutamento di condanna. Si trattò di un domicilio coatto presso la località ove era nato: Krašić. Nella canonica, in una modesta stanza, l’Arcivescovo visse fino alla morte (10 febbraio 1960).
   
Anche nell’ultima fase della sua vita fu costretto ad affrontare più criticità. Tra queste, oltre alla insistente sorveglianza e ai controlli imposti ai visitatori e alla corrispondenza, anche due interventi operatori a motivo di una trombosi. Con il decesso ebbe termine l’istruttoria iniziata per poter arrivare a un secondo processo a suo carico. 
  
Qualche considerazione
Tenendo conto delle evidenze summenzionate, si possono annotare qui di seguito alcune considerazioni.
1) Nel corso della sua vita, Monsignor Stepinac affrontò sia il regime di Pavelić (e la milizia degli «ustaše»), sia la vicenda di consacrati croati che non seguirono le direttive dell’Arcivescovo, sia gli eserciti occupanti (la Wehrmacht tedesca e le divisioni dell’esercito italiano), sia le fazioni interne impegnate nel conflitto (i četnici), sia le truppe collaborazioniste di diversa nazionalità (dalla provincia tedesca di Lubiana arrivarono i belogardisti e i domobranci; erano «Sloveni bianchi», anticomunisti), sia i partigiani di Tito (che nelle loro formazioni accolsero pure Italiani e Croati).
2) Malgrado una posizione situata al centro di una «polveriera», Monsignor Stepinac dovette comunque garantire il proseguimento della vita ecclesiale, e rivolse una particolare cura verso le opere assistenziali, e verso le iniziative mirate a mitigare condanne e a strappare dalla morte molteplici condannati.
3) Nell’attuale periodo, la maggiore difficoltà degli studi storici riguarda il controllo puntuale di ogni dato. Si tratta di scindere le affermazioni spurie (di derivazione politica) dalle evidenze (supportate da documenti). Su Monsignor Stepinac, infatti, è ancora oggi possibile trovare (anche in siti internet) notizie che provengono o dall’ufficio propaganda del regime «ustaša», o dai centri stampa legati al Governo Iugoslavo.
– Mentre nel primo caso si volle trasmettere un messaggio di continua «vicinanza» del presule a Pavelić (anche correggendo discorsi dell’Arcivescovo, e manipolando foto o filmati),
– nel secondo si volle accentuare tale aspetto di «prossimità» agli «ustaše» mostrando immagini di carneficine (per dimostrare la presunta «passività» di Monsignor Stepinac), foto già utilizzate dagli operatori «ustaša», e rapporti con affermazioni false.
Purtroppo, con il tempo, tale realtà informativa si è aggravata per le successive guerre balcaniche. È possibile così comprendere una continuità di polemica che ancora segna l’interazione serbo-croata. In tale contesto, la «vicenda Pavelić» riemerge in più occasioni. E si continua a discutere (senza risultati definitivi) sui morti per mano degli «ustaše» (e collaborazionisti), su quelli uccisi dai Serbi (con i collaborazionisti)[65], e sulle vittime degli eccidi comunisti. 
  
Nella Bosnia Erzegovina[66]
Nella storia della Iugoslavia Socialista la data del 27 luglio 1941 fu scelta come festa nazionale. Segnava la «giornata dell’insurrezione», l’inizio cioè della lotta antifascista. Da quel momento, a episodi militari, si affiancarono anche persecuzioni a danno di Cattolici (tra il 1941 e il 1952, ma soprattutto nel 1945). Ne furono vittime, oltre ai laici[67], anche sacerdoti e religiosi delle diocesi della Bosnia Ezegovina: Sarajevo, Banja Luka, Mostar e Tribinje. In quegli anni i Cattolici nella regione risultavano circa 650.000 e rappresentavano il 27% della popolazione, contro il 42% degli Ortodossi (più tutelati) e il 30% dei Musulmani. Nel 2008, Monsignor Tomo Vuksic[68] rese noti i risultati di una sua ricerca.[69] Per questo autore, durante il Secondo Conflitto Mondiale, la Chiesa Cattolica in Bosnia Erzegovina avrebbe perso 227 tra sacerdoti, fratelli laici, chierici, seminaristi e suore:
1) in modo diretto o indiretto, a opera di forze comuniste, ne furono uccisi 184 (cioè l’81,05%);
2) 16 morirono di tifo;
3) 18 per mano dei četnici;
4) nove per motivi non precisati;
5) la vittima più giovane aveva 12 anni. Si chiamava Ivan Skender. Era seminarista a Banja Luka;
6) la persona più anziana che venne eliminata aveva 84 anni. Si trattò di Don Vide Putica[70], sacerdote della diocesi di Trebinje. Parroco in pensione. Disabile. Fu trucidato a Prenj (nei pressi di Stolac).
    
La situazione dei Vescovi[71]. Monsignor Petar Čule
Perseguitando i Vescovi, il regime comunista ottenne il risultato che voleva. Alla fine del 1949 nella Bosnia Erzegovina non c’erano più presuli. Nel 1948 infatti, con Monsignor Ivan Šarić[72] (Arcivescovo di Sarajevo) in esilio, Monsignor Petar Čule[73], Vescovo di Mostar-Duvno, e amministratore apostolico di Trebinje-Mrkan, subì un arresto (22 aprile). Tale attacco delle autorità fu legato a più denunce di Monsignor Čule. 1) Il presule aveva accusato il Governo dello sterminio fisico dei Cattolici (proteggendo invece i preti ortodossi e i gruppi musulmani). Questa dura politica si realizzava a volte con processi. In altri casi non c’erano neanche delle inchieste e dei giudizi formali. 2) Nella Lettera Pastorale del 22 settembre 1945 (sessione episcopale di Zagabria) venne denunciato il massacro dei frati di Široki Brijeg.
Il processo a Monsignor Čule si svolse nel luglio 1948. Durò tre giorni. Il presule fu condannato a 11 anni e sei mesi di carcere duro, con successiva perdita dei diritti civili per tre anni.
   
Unitamente a ciò, la polizia politica – attraverso perquisizioni – sequestrò al presule molte risorse che dovevano servire per la costruzione della Cattedrale. Il presule scontò la pena nella prigione di Zenica. Fu poi gravemente ferito mentre veniva trasportato nella prigione di Sremska Mitrovica con altri prigionieri. Dopo la detenzione riprese le sue attività pastorali. Morì a Mostar il 29 luglio del 1985. Fu sepolto nella cripta della Cattedrale di Mostar.
   
Monsignor Smiljan Franjo Čekada
   
Nell’ultimo periodo del 1949, il Vescovo di Skopje, Monsignor Smiljan Franjo Čekada[74] (era pure amministratore apostolico di Banja Luka), fu espulso.
   
Già nella sua prima omelia in diocesi (agosto 1940) aveva chiesto giustizia per tutti gli uomini di qualsiasi nazionalità o razza. L’11 marzo 1943, inviò una lettera di protesta al comandante della polizia di Skopje Asen Bogdanov in cui definì le operazioni antiebraiche «un evento doloroso». Chiese il rilascio degli «Ebrei di fede cattolica». Fece insistenza per poter visitare gli Ebrei rinchiusi nei magazzini di Monopol. Scrisse che gli Ebrei dovevano essere trattati in modo umano. Bogdanov non rispose alla lettera, ma trasmise una denuncia ad Artur Vitte (Console Tedesco a Skopje). Vitte allegò la denuncia in un rapporto al Ministero degli Esteri riguardante la deportazione degli Ebrei di Macedonia.
    
Monsignor Čekada non solo rischiò la vita opponendosi ai nazisti, ma nascose pure cinque bambini (quattro maschi e una ragazza). Per il suo disegno umanitario utilizzò i locali della chiesa (Skopje), e poi i monasteri di Letnica e Janjevo. Tra i bambini salvati c’erano Shaul Gattegno (nato nel 1940), Albert Mussafia (nato nel 1936) ed Erica Weingruber. Questo Vescovo morì a Sarajevo nel 1976.
   
Il 9 marzo 2010, la direzione del Memoriale «Yad Vashem» di Gerusalemme ha riconosciuto Monsignor Smiljan Čekada come «Giusto tra le Nazioni».
   
Monsignor Smiljan Franjo Čekada (Archivio dell'Arcivescovato di Vrhbosn)
   
La situazione dei sacerdoti e dei religiosi[75]
27 luglio 1941. A Drvar, una parrocchia della diocesi di Banja Luka (Bosnia Erzegovina), avvenne un fatto cruento. Ribelli serbi (rivolta partigiana iugoslava) bloccarono Don Waldemar Maksimilijan Nestor[76] e numerosi fedeli mentre facevano ritorno nella loro comunità. Avevano partecipato alla festa di Sant’Anna, vicino a Knin (Kosovo). Le milizie li catturarono. Li legarono. Li trascinarono fino alla fossa di Golubnjača. E li trucidarono. I corpi finirono in cavità del terreno. Don Nestor fu il primo sacerdote ucciso nel territorio dell’ex Iugoslavia nel periodo del Secondo Conflitto Mondiale[77]. Mercoledì 19 novembre 2014 i resti di Don Nestor e quelli di 14 vittime innocenti della sua parrocchia sono stati sepolti in un cimitero cattolico a Banja Luka.
   
Poche ore dopo l’eccidio di Don Nestor e dei suoi fedeli venne pure arrestato da ribelli serbi locali Don Juraj Gospodnetić[78]. Era parroco nel villaggio di Bosansko Grahovo. Lo bloccarono al termine della celebrazione eucaristica domenicale. Fu torturato e assassinato durante il massacro che riguardò i Cattolici di questa località (27 luglio 1941)[79].
Nell’autunno del 1944 ebbe inizio una fase critica per il clero che, dal luglio 1945, fu segnata da azioni apertamente persecutorie. Si prelevarono senza motivo dai conventi e dalle case parrocchiali diversi consacrati. Questi furono eliminati in più casi senza un regolare processo. In altre vicende, la condanna a morte fu comminata dai cosiddetti tribunali militari. Non mancarono poi i preti che persero la vita con i profughi che cercavano di raggiungere l’Austria, e quelli che morirono dopo la guerra nei campi di concentramento comunisti e nelle prigioni.
   
Nel novembre del 2015, la Procura della Bosnia Erzegovina ha comunicato l’avvenuta riesumazione di corpi dalla fossa di Golubnjača. È stato specificato che si tratta dei corpi dei pellegrini uccisi nel luglio 1941.
   
La cronaca del tempo riferisce diversi fatti cruenti. Si cita un esempio. Il 7 febbraio 1945, a Široki Brijeg, partigiani dell’8° Corpo d’Armata Dalmata, assalirono (con uso di bombe) la locale chiesa e il convento francescano. I 30 religiosi vennero fatti uscire uno a uno. Furono tutti eliminati. Il regime comunista iugoslavo proibì di ricordare o commemorare i frati e i loro corpi rimasero nascosti sotto terra per molti anni.
   
Sempre il 7 febbraio 1945 vennero trucidati, a Mostarski Gradac, quattro sacerdoti e due chierici. Quattro giorni dopo, in un villaggio a Nord-Ovest di Široki Brijeg, un comandante partigiano ordinò di interrompere la celebrazione della Messa. Furono prelevati e uccisi due religiosi e un fratello laico. Secondo i più recenti studi si è arrivati a ritenere che determinate tragedie non si possono definire come conseguenza di circostanze casuali. Da più dettagli si individua un piano preordinato mirato ad attuare una persecuzione religiosa. Tale asserzione tiene conto anche di due fatti:
1) dall’inizio della guerra fino al 1944 furono eliminati 40 sacerdoti e religiosi. Dopo la guerra (1945) i consacrati trucidati furono 120;
2) nessun miliziano comunista ha mai dovuto rispondere dei crimini commessi, anche se le uccisioni si verificarono in modo brutale e senza processo. 
  
Qualche considerazione di sintesi
Le vicende considerate attraversano un periodo storico caratterizzato da eventi bellici e da politiche apertamente antireligiose, e soprattutto anticattoliche. Alcuni autori, non avendo studiato diversi documenti desecretati in tempi recenti, hanno mantenuto uno schema di riferimento che mette insieme fatti di guerra e uccisioni di sacerdoti e di religiosi. Con il procedere del tempo, è stato dimostrato che il Secondo Conflitto Mondiale (con le sue dinamiche, alleanze e operazioni territoriali) è da ascrivere a precise responsabilità di politici, di militari, di miliziani e di collaborazionisti. Le persecuzioni religiose, al contrario, così come quelle di molti civili non legati a vicende belliche, sono riconducibili a precise direttive del comandante Tito. Quest’ultimo, considerava la Chiesa Cattolica – specie la gerarchia ecclesiastica – una realtà da impoverire per poterla controllare dal suo interno. Per tale motivo il Maresciallo non ebbe difficoltà a diramare direttive mirate a consentire alle milizie di Belgrado di dominare, eliminare e nascondere anche figure di consacrati fedeli al Papa. 
  
Alcune indicazioni bibliografiche
A. Ballarini, G. Stelli, M. Micich, E. Loria, Venezia Giulia Fiume Dalmazia. Le foibe, l’esodo, la memoria, Associazione per la Cultura Fiumana Istriana e Dalmata nel Lazio, Roma 2010
M. Cattaruzza, M. Dogo, R. Pupo, Esodi: trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2000
F. Dal Mas, Nuovi terribili particolari sugli eccidi commessi dal regime nell’ex Iugoslavia tra il 1941 e il 1952, soprattutto a Sarajevo e Mostar. Tito, la mattanza dei cristiani, in «Avvenire», 4 marzo 2008, pagina 23
P. L. Guiducci, La questione religiosa nel secondo dopoguerra. Le persecuzioni del clero e dei religiosi in Istria e nell’area balcanica, in: «Fiume», rivista di studi adriatici (nuova serie), 43, novembre-dicembre 2020 numeri 11-12; gennaio 2021 numero 1, pagine 75-98
V. Mercante, Il Cardinale Alojzije Stepinac. Nella Croazia degli ustascia e nella Iugoslavia di Tito, Luglio Editore, Trieste 2018
O. Moscarda, Il ruolo dell’OZNA nella transizione fra guerra e dopoguerra, in sito Regione Friuli Venezia Giulia: https://www.regionestoriafvg.eu/upload/allegati
S. M. Paci, Intervista con il Cardinale Franjo Kuharic, in «30 Giorni. Nella Chiesa e nel mondo», numero 2, 1999
R. Ponis, In odium fidei. Sacerdoti in Istria. Passione e calvario, Zenit, Milano 2006 (3a edizione)
R. Pupo, Guerra e dopoguerra al confine orientale d’Italia: 1938-1956, Del Bianco Editore, Udine 2000
R. Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano 2013
L. Raito, Comunisti ai confini orientali. Guerra, resistenza, scontri politici e foibe in Venezia Giulia e Istria 1941-1947, CLEUP, Padova 2010
G. Rumici, Infoibati. I nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti, Mursia, Milano 2002. 
  
Ringraziamenti
Dottor Marino Micich, Direttore del Museo Archivio Storico di Fiume. Presidenza della Lega Nazionale di Trieste.
   
Note 
1 Josip Broz, detto Tito (1892-1980). Non è sicura la data della sua iscrizione al Partito Comunista. N. Beloff, Tito fuori dalla leggenda. Fine di un mito. La Iugoslavia e l’Occidente 1939-1986. Il libro proibito dal regime di Belgrado, Reverdito, Trento 1987.

2 La Odeljenje za ZaštituNAroda, Dipartimento per la Sicurezza del Popolo, in sigla OZNA, o Oddelek za zaščitonaroda, era parte dei servizi segreti militari iugoslavi. W. Klinger, Il terrore del popolo. Storia dell’OZNA, la polizia politica di Tito, Luglio Editore, Trieste 2015.

3 Confronta anche: F. T. Rulitz, Tragedy of Bleiburg and Viktring, 1945, DeKalb, NIU Press/Northern Illinois University Press, Champaign 2016.

4 Tale espressione volutamente generica servì a perseguitare molti Cattolici senza fornire riscontri oggettivi.

5 Confronta anche: A. Petacco, L’esodo. La tragedia negata, Mondadori, Milano 2000.

6 Confronta anche: O. Moscarda Oblak, La presa del potere in Istria e in Iugoslavia, in: «Quaderni», volume XXIV, Centro di ricerche storiche-Rovigno 2013, pagine 29-61.

7 OZNA: Odeljenje za Zaštitu NAroda. Era il Dipartimento per la Protezione del Popolo, parte dei servizi segreti militari jugoslavi.

8 Aleksandar Ranković (1909-1983).

9 Partito Contadino Croato.

10 La frase è poco chiara. Probabilmente Ranković suggerisce di estorcere confessioni sui quadri inferiori agli «esponenti di spicco» conosciuti.

11 La seconda sezione OZNA si occupava dei collaborazionisti all’interno del territorio liberato.

12 Si tratta di Bakarić, capo dell’esecutivo della Croazia comunista.

13 Il documento si trova in: Hrvatski Državni Arhiv [HDA], Zagreb, 1491, 2.49/3 - Krjiga poslanih i primljenih depeša od 27. IV. do 5. VI. 1945. Pubblicato ora in Zdravko Dizdar – Vladimir Geiger – Milan Pojić – Mate Rupić (a cura di), Partizanska i komuni-stička represija i zločini u Hrvatskoj 1944-1946. Dokumenti, Srijema i Baranje 2005, Slavonski Brod, Hrvatski institut za povijest – Podružnica za povijest Slavonije.

14 W. Klinger, Il terrore del popolo: storia dell’OZNA, la polizia politica di Tito, Italo Svevo, Trieste 2012, pagina 160. Confronta anche: M. Djilas, Se la memoria non mi inganna, Il Mulino, Bologna 1988, pagina 305.

15 Vaso Čubrilović (1897-1990). Divenne Ministro dell’Agricoltura e Foreste nella Iugoslavia comunista di Tito. Fu poi consigliere di Milošević.

16 R. Elsie, Gathering Clouds. The Roots of Ethnic Cleansing in Kosovo and Macedonia. Early Twentieth-century Documents, Dukagjini Balkan Books, Dukagjini, Peja 2002, pagina 70.

17 R. Elsie, Gathering Clouds. The Roots of Ethnic Cleansing in Kosovo and Macedonia. Early Twentieth-century Documents, Dukagjini Balkan Books, Dukagjini, Peja 2002, pagina 70.

18 M. Micich, La Seconda Guerra Mondiale a Fiume e dintorni, tre puntate, in: «Fiume», Società generale della Società di Studi Fiumani, presidente dell’Associazione per la cultura fiumana istriana e dalmata nel Lazio, saggista per la rivista «Fiume» dal 1995.

19 Fonte jugoslava: Prikljućenje Istre Federalnoj državi Hrvatskoj u demokratskoj federativnoj Jugoslaviji (1943-1968), Sjevero Jadranski Institut, Jugoslavenske Akademije Znanosti u Umjetnosti, Rijkea 1968, «Svi oni Talijani koji (su) se posljie 1918. Godine doselili i Istru u svrhu odnarođivanja i izrabljivanja našeg naroda biti će vračeni u Italiju. O pojedinim slučajevima odlučivati će zato posebna komisija», pagina 194.

20 Confronta anche: G. La Perna, Pola – Istria – Fiume, 1943-1945. La lenta agonia di un lembo d’Italia, Mursia, Milano 1993.

21 P. Zovatto, Monsignor Raffaele Radossi. Vescovo di Parenzo e Pola (1941-1947). «Profugo giuliano», Luglio Editore, Trieste 2019.

22 Monsignor Eugenio Ravignani (1932-2020).

23 A. Corsi, Ricordo del Vescovo Monsignor Raffaele Radossi; con i ricordi di Monsignor Bommarco, di Monsignor Radole e altri, Unione degli Istriani, Trieste 2006. Le frasi citate nel testo sono riprese da C. Antonelli, Il ricordo del Vescovo Raffaele Radossi, in: «Il Piccolo», 25 luglio 2006.

24 U. Camozzo, La lampada è accesa: ...lunga giornata di un sacerdote e Vescovo, Pacini Mariotti, Pisa 1967.

25 AA.VV., Olocausti dimenticati, a cura di E. Longo, lulu.com, Morrisville 2016, pagina 60.

26 Ricordo di Monsignor Ugo Camozzo, in: «La Voce del Carnaro», a cura della Lega Fiumana di Napoli, Firenze 1953, pagine 19-20.

27 P. Triulcio, Monsignor Ugo Camozzo ultimo Vescovo di Fiume italiana: tra guerra ed esilio, in: «Fiume», 22 ottobre 2014.

28 G. E. Lovrovich, Pietro Doimo Munzani Arcivescovo di Zara, Tipografia Santa Lucia, Marino 1978.

29 Le autorità politiche erano consapevoli della grande autorità morale del presule, e della popolarità che godeva a Zara.

30 M. Zerboni, Pietro Doimo Munzani. L’ultimo Arcivescovo Italiano di Zara ricordato a 60 anni dall’esodo (1947-2007), Italo Svevo, Trieste 2006.

31 P. Zovatto, Monsignor Antonio Santin e il razzismo nazifascista a Trieste (1938-1945), Centro Studi Storico Religiosi, Quarto d’Altino 1977.

32 A seguito delle approvazioni delle leggi razziali fasciste, Monsignor Santin affrontò lo stesso Mussolini per difendere gli Ebrei e incontrò Pio XI (attaccato dal regime per frasi favorevoli agli Ebrei).

33 Tale Linea  prese il nome dal Generale William Duthie Morgan, ufficiale del Generale Harold Alexander, comandante delle forze alleate in Italia.

34 https://www.centrostudifederici.org/mons-santin-e-la-preghiera-per-le-vittime-delle-foibe/

35 Redazione, Il Vescovo di Trieste aggredito a Capodistria, in: «L’Osservatore Romano», 21 giugno 1947.

36 Con riferimento alle omelie di Monsignor Santin confronta anche: Antonio Santin. Parole agli esuli, a cura di Don Ettore Malnati e di Don Paolo Rakic, Casa Editrice: Archivi Don Ettore Malnati, Trieste 2006.

37 P. Zovatto, Monsignor Antonio Santin e il razzismo nazifascista a Trieste (1938-1945), Centro Studi Storico Religiosi, Quarto d’Altino 1977.

38 Invocazione per le vittime delle Foibe di Monsignor Santin (leganazionale.it).

39 P. Zovatto, Preti perseguitati in Istria 1945-1956. Storia di una secolarizzazione, Luglio Editore, Trieste 2017. R. Ponis, Storie di preti dell’Istria uccisi per cancellare la loro fede, Litografia Zenit, Trieste 2006.

40 Don Pietro Zovatto (nato nel 1936). Dalla sua giovinezza vive a Trieste.

41P. Zovatto, Preti perseguitati in Istria 1945-1956. Storia di una secolarizzazione, Luglio Editore, Trieste 2017.

42 Primo periodo di uccisioni di massa seguite al vuoto di potere legato al crollo politico, militare e istituzionale dell’8 settembre 1943.

43 Confronta M. Girardo, Sopravvissuti e dimenticati. Il dramma delle foibe e l’esodo dei Giuliano-Dalmati, Paoline, Milano 2006.

44 P. Triulcio, Il primo martire delle foibe. Beato Don Francesco Giovanni Bonifacio, in Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pagine 549-568. P. Vanzan, Don Francesco Bonifacio Martire delle foibe, in «La Civiltà Cattolica», 15 novembre 2008, pagine 357-366.

45 Nota anche come Crassizza.

46 S. Galimberti, Don Francesco Bonifacio, presbitero e testimone di Cristo, MGS Press, Trieste 1998. M. Ravalico, Don Francesco Bonifacio. Assistente dell’Azione Cattolica fino al martirio, AVE, Roma 2016.

47 Già designato amministratore apostolico per la parte della diocesi di Trieste e Gorizia destinata a passare alla Iugoslavia.

48 I comunisti la chiamavano «il Vaticano» per la fedeltà dei parrocchiani alla Chiesa Cattolica.

49 Don Stjepan (Stefan) Cek (1913-1985).

50 Dati riferiti da Fabijan Veraja. Per queste e altre informazioni si rimanda al suo libro: Miroslav Bulešić, Izdaje, Biskupija Porečka i Pulska, Poreč 2013.

51 J. Batelja, Croazia. Il Cardinale Alojzie Stepinac e la prima fase della battaglia ideologica, in Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pagine 483-504.

52 Stato Indipendente di Croazia (in croato: Nezavisna Država Hrvatska, abbreviato in NDH).

53 Avvocato Ante Pavelić (1889-1959). Nato a Bradina (Bosnia Erzegovina), morì a Madrid (Spagna).

54 In questi campi molti internati morirono di torture o si suicidarono. Altri vennero lasciati morire di fame o di sfinimento.

55 J. Krišto, Croazia. I procedimenti sommari delle autorità comuniste contro i religiosi, in Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pagine 505-516.

56 V. Popić, Croazia. Il calvario delle donne di vita consacrata, in Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pagine 517-532.

57 M. Jareb, Croazia. I laici e il regime comunista, in Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pagine 533-548.

58 Monsignor Alojzije Stepinac (1898-1960; Beato). Nacque a Krašić (vicino a Zagabria). Venne nominato Arcivescovo coadiutore di Zagabria da Pio XI il 28 maggio del 1934. Fu consacrato Vescovo il 24 giugno dello stesso anno dall’Arcivescovo Anton Bauer (1856-1937). Monsignor Stepinac, il 7 dicembre 1937, successe a Monsignor Bauer come Ordinario diocesano. Nel 1953 fu creato Cardinale da Pio XII.

59 Il postulatore della causa di canonizzazione, Monsignor Juraj Bateljia ha riferito anche in merito a un possibile avvelenamento. Confronta «Adnkronos», 6 maggio 1998.

60 Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła; 1920-2005; Santo). Il suo Pontificato durò dal 1978 alla morte.

61 Hrvatska Seljačka Stranka, HSS.

62 Vladko Maček (1879-1964). Avvocato e politico. Nel marzo del 1941 non accettò la proposta nazista di diventare il leader politico di uno Stato Indipendente Croato. Si ritirò a vita privata.

63 Monsignor Giuseppe Ramiro Marcone (1882-1952). Religioso benedettino. Divenne Abate di Montevergine nel 1918. Mantenne tale incarico fino al 1952.

64 18 settembre 1946.

65 P. L. Guiducci, Dossier Stepinac. Alojzije Stepinac (1898-1960). Un Arcivescovo tra «ustaše», cetnici, nazisti, fascisti e comunisti, Albatros, Roma 2018.

66 T. Vukšić, I martiri ritrovati. I partigiani di Tito, il regime comunista e la persecuzione dei Cattolici nella Bosnia Erzegovina dal 1941 al 1952, in «Nuova Storia Contemporanea», numero 1, gennaio-febbraio 2008, pagine 45-65.

67 M. Krešić, Bosnia Erzegovina. I fedeli laici, in Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pagine 465-481.

68 Monsignor Tomo Vukšić (nato nel 1954). Arcivescovo coadiutore di Sarajevo.

69 T. Vukšić, I martiri ritrovati. I partigiani di Tito, il regime comunista e la persecuzione dei Cattolici nella Bosnia Erzegovina dal 1941 al 1952, in «Nuova Storia Contemporanea», numero 1, gennaio-febbraio 2008.

70 Don Vide Putica (1858-1942).

71 R. Perić, Bosnia Erzegovina. I Vescovi, in Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pagine 387-404.

72 Monsignor Ivan Šarić (1871-1960).

73 Monsignor Petar Čule (1898-1985). Ordinato sacerdote a Sarajevo il 20 giugno 1920. Fu anche amministratore apostolico di Trebinje-Mrkan dal 1942 al 1980.

74 Monsignor Smiljan Franjo Cekada (1902-1976).

75 A. Orlovac, Bosnia Erzegovina. I sacerdoti diocesani, in Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pagine 405-423. M. Semren, Bosnia Erzegovina. I religiosi uccisi e perseguitati, in Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pagine 425-444. N. Palac, Bosnia Erzegovina. Le religiose, in Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pagine 445-464.

76 Don Waldemar Maksimilijan Nestor (1888-1941; Servo di Dio).

77 «Nestor Waldemar Maximilian», in Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pagine 406, 411-412, 469.

78 Don Juraj Gospodnetić (1910-1941; Servo di Dio).

79 «Gospodnetić Juraj», in Jan Mikrut (a cura di), Testimoni della fede, Il Segno dei Gabrielli Editori, San Pietro in Cariano 2017, pagine 406, 410-411.

 

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