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domingo, 30 de octubre de 2022

DOCTRINA POLÍTICA Y SOCIAL DEL FASCISMO

Traducción del artículo publicado en RADIO SPADA.
  
MUSSOLINI – DOTTRINA POLITICA E SOCIALE DEL FASCISMO – GIOVENTÙ FASCISTA ANNO X
  
El tomo XIV de la Enciclopedia Italiana publica, en la segunda parte de la voz Fascismo, el siguiente escrito del Duce dedicado a la doctrina política y social del Fascismo.
  
Cuando, en el ahora lejano marzo del 1919, por las columnas del Popolo d’Italia yo convoqué en Milán a los supérstites interventistas-intervenidos que me habían seguido casi desde la constitución de los Fasci d’azione rivoluzionaria —acaecida en enero de 1915— no había en mi espíritu ningún plano doctrinal específico. De una sola doctrina yo extraigo la experiencia vista: la del socialismo desde 1903-04 hasta el invierno de 1914: cerca de un decenio. Experiencia de gregario y de jefe, mas no experiencia doctrinal. Mi doctrina también en aquel período, era la doctrina de la acción. No existía una doctrina unívoca y universalmente aceptada del socialismo casi hasta 1905, cuando comenzó en Alemania el movimiento revisionista haciendo jefe a Bernstein e per contro si formò, nell’altalena delle tendenze, un movimento di sinistra rivoluzionario, che in Italia non uscì mai dal campo delle frasi, mentre, nel socialismo russo, fu il preludio del bolscevismo. Riformismo, rivoluzionarismo, cen­trismo, di questa terminologia anche gli echi sono spenti, mentre nel grande fiume del fascismo troverete i filoni che si diparti­rono dal Sorel, dal Peguy, dal Lagardelle del Mouvement socialiste e dalla coorte dei sindacalisti italiani, che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità nell’ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolitlinna, con le Pagine libere di Olivetti, La Lupa di Orano, il Divenire sociale di Enrico Leone.
  
Nel 1919, finita la guerra, il socialismo era già morto come dottrina: esisteva solo come rancore, aveva ancora una sola possibilità, specialmente in Italia, la rappresaglia contro coloro che avevano voluto la guerra e che dovevano «espiarla». Il Popolo d’Italia recava nel sottotitolo quotidiano dei combattenti dei produttori. La parola «produttori» era già l’espressione di un indirizzo mentale. Il fascismo non fu tenuto a balia da una dottrina elaborata in precedenza, a tavolino: nacque da un bisogno di azione e fu azione; non fu partito, ma, nei primi due anni, antipartito e movimento. Il nome che io diedi all’organiz­zazione, ne fissava i caratteri. Eppure chi rilegga, nei fogli oramai gualciti dell’epoca, il resoconto dell’adunata costitutiva dei Fasci italiani di combattimento, non troverà una dottrina, ma una serie di spunti, di anticipazioni, di accenni, che, liberati dall’inevitabile ganga delle contingenze, dovevano poi, dopo alcuni anni, svilupparsi in una serie di posizioni dottrinali, che facevano del fascismo una dottrina politica a sé stante, in confronto di tutte le altre e passate e contemporanee. «Se la borghesia, dicevo allora, crede di trovare in noi dei parafulmini si inganna. Noi dobbiamo andare incontro al lavoro… Vogliamo abituare le classi operaie alla capacità direttiva, anche per convincerle che non è facile mandare avanti una industria o un commercio… Combatteremo il retroguardismo tecnico e spirituale… Aperta la successione del regime noi non dobbiamo essere degli imbelli. Dobbiamo correre; se il regime sarà superato saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Il diritto di successione ci viene perché spingemmo il paese alla guerra e lo  conducemmo alla vittoria! L’attuale rappresentanza politica non ci può bastare, vogliamo una rappresentanza diretta dei singoli interessi… Si potrebbe dire contro questo programma che si ritorna alle corporazioni. Non importa!… Vorrei perciò che l’assemblea accettasse le rivendicazioni del sindacalismo nazionale dal punto di vista economico… ».
   
Non è singolare che sin dalla prima giornata di Piazza San Sepolcro risuoni la parola corporazione che doveva, nel corso della Rivoluzione, significare una delle creazioni legislative e sociali alla base del regime?
  
Gli anni che precedettero la marcia su Roma furono anni durante i quali le  necessità dell’azione non tollerarono indagini o complete elaborazioni dottrinali. Si battagliava nelle città e nei villaggi. Si discuteva, ma — quel ch’è più sacro e importante — si moriva. Si sapeva morire. La dottrina — bell’è formata, con divisione di capitoli e paragrafi e contorno di elu­cubrazioni — poteva mancare; ma c’era a sostituirla qualche cosa di più decisivo: la fede. Purtuttavia, chi rimemori sulla scor­ta dei libri, degli articoli, dei voti dei congressi, dei discorsi maggiori e minori, chi sappia indagare e scegliere, troverà che fondamenti della dottrina furono gettati mentre infuriava la battaglia. È precisamente in quegli anni, che anche il pensiero fascista si arma, si raffina, procede verso una sua organizzazione. I problemi dell’individuo e dello stato; i problemi dell’autorità e della libertà; i problemi politici e sociali e quelli più specifi­catamente nazionali; la lotta contro le dottrine liberali, demo­cratiche, socialistiche, massoniche, popolaresche fu condotta contemporaneamente alle «spedizioni punitive». Ma poiché mancò il «sistema» si negò dagli avversari in malafede al fasci­smo ogni capacità di dottrina, mentre la dottrina veniva sorgen­do, sia pure tumultuosamente, dapprima sotto l’aspetto di una negazione violenta e dogmatica come accade di tutte le idee che esordiscono, poi sotto l’aspetto positivo di una costruzione, che trovava, successivamente neggli anni 1926, ’27, ’28, la sua realizzazione nelle leggi e negl’istituti del regime.
  
El fascismo es hoy netamente individualizado no solo como régimen, sino como doctrina. Esta palabra va interpretada en el sentido que hoy el fascismo, ejercitando su crítica sobre sí mismo y sobre los otros, tiene su propio e inconfundible punto de vista, de referencia —y por tanto de dirección— ante todos los problemas que angustian, en las cosas o en las inteligencias, a los pueblos del mundo.
   
Anzitutto il fascismo, per quanto riguarda, in generale, l’av­venire e lo sviluppo dell’umanità, e a parte ogni considerazione di politica attuale, non crede alla posibilità né all’utilità della pace perpetua. Respinge quindi il pacifismo che nasconde una rinuncia alla lotta e una viltà, di fronte al sacrificio. Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di affrontarla. Tutte le altre prove sono dei sostituti, che non pon­gono mai l’uomo di fronte a se stesso, nell’alternativa della vita e della morte. Una dottrina, quindi, che parta dal postulato pregiudiziale della pace, è estranea al fascismo; cosi come estranee allo spirito del fascismo, anche se accettate per quel tanto di utilità che possano avere in determinate situazioni poli­tiche, sono tutte le costruzioni internazionalistiche e societarie, le quali, come la storia dimostra, si possono disperdere al vento quando elementi sentimentali, ideali e pratici muovono a tem­pesta il cuore dei popoli.
  
Questo spirito antipacifista, il fascismo lo  trasporta anche nella vita degl’individui. L’orgoglioso motto squadrista «me ne frego», scritto sulle bende di una ferita, è un atto di filosofia non soltanto stoica, è il sunto di una dot­trina non soltanto politica: è l’educazione al combattimento, l’accettazione dei rischi che esso comporta; è un nuovo stile di vita italiano. Cosi il fascista accetta, ama la vita, ignora e ritiene vile il suicidio; comprende la vita come dovere, eleva­zione, conquista: la vita che deve essere alta e piena; vissuta per sé, ma soprattutto per gli altri vicini e lontani, presenti e futuri.
  
La politica «demografica» del regime è la conseguenza di queste premesse. Anche il fascista ama infatti il suo pros­simo, ma questo «prossimo» non è per lui un concetto vago e inafferrabile: l’amore per il prossimo non impedisce le necessa­rie educatrici severità, e ancora meno le differenziazioni e le di­stanze. Il fascismo respinge gli abbracciamenti universali e, pur vivendo nella comunità dei popoli civili, li guarda vigilante e diffidente negli occhi, li segue nei loro stati d’animo e nella trasformazione dèi loro interessi, né si lascia ingannare da ap­parenze mutevoli e fallaci.
  
Una siffatta concezione della vita porta il fascismo a essere la negazione recisa di quella dottrina che costituì la base del so­cialismo cosiddetto scientifico o marxiano: la dottrina del mate­rialismo storico, secondo il quale la storia delle civiltà umane si spiegherebbe soltanto con la lotta d’interessi fra i diversi gruppi sociali e col cambiamento dei mezzi e strumenti di produzione. Che le vicende dell’economia — scoperte di materie prime, nuo­vi metodi di lavoro, invenzioni scientifiche — abbiano una loro importanza, nessuno nega, ma che esse bastino a spiegare la storia umana escludendone tutti gli altri fattori è assurdo: il fascismo crede ancora e sempre nella santità e nell’eroismo, cioè in atti nei quali nessun motivo economico — lontano o vicino — agisce.
  
Negato il materialismo storico, per cui gli uomini non sarebbero che comparse della storia, che appaiono e scompaiono alla superficie dei flutti, mentre nel profondo si agitano e lavorano le vere forze direttrici, è negata anche la lot­ta di classe, immutabile e irreparabile, che di questa conce­zione economicistica della storia è la naturale figliazione, e so­prattutto è negato che la lotta di classe sia l’agente preponde­rante delle trasformazioni sociali. Colpito il socialismo in questi due capisaldi della sua dottrina, di esso non resta allora che l’a­spirazione sentimentale — antica come l’umanità — a una con­vivenza sociale nella quale siano alleviate le sofferenze e i dolori della più umile gente. Ma qui il fascismo respinge il con­cetto di «felicità» economica, che si realizzerebbe socialisticamente e quasi automaticamente a un dato momento dell’evoluzione dell’economia, con l’assicurare a tutti il massimo di be­nessere. Il fascismo nega il concetto materialistico di «felicità» come possibile e lo abbandona agli economisti della prima metà del ‘700; nega cioè l’equazione benessere-felicità, che converti­rebbe gli uomini in animali di una cosa sola pensosi: quella di essere pasciuti e ingrassati, ridotti, quindi, alla pura e semplice vita vegetativa.
   
Dopo il socialismo, il fascismo batte in breccia tutto il com­plesso delle ideologie democratiche e le respinge, sia nelle loro premesse teoriche, sia nelle loro applicazioni o strumentazioni pratiche. Il fascismo nega che il numero, per il semplice fatto di essere numero, possa dirigere le società umane; nega che que­sto numero possa governare attraverso una consultazione perio­dica; afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefìca degli uomini che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed estrinseco com’è il suffragio universale.
  
Regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l’illusione di essere sovrano, men­tre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsa­bili e segrete. La democrazia è un regime senza re, ma con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici e rovinosi che un solo re che sia tiranno. Questo spiega perché il fascismo, pur avendo prima del 1922 — per ragioni di contingenza — assunto un atteggiamento di tendenzialità repubblicana, vi rinunciò prima della marcia su Roma, convinto che la questione delle forme politiche di uno stato non è, oggi, preminente e che stu­diando nel campionario delle monarchie passate e presenti, delle repubbliche passate e presenti, risulta che monarchia e repubblica non sono da giudicare sotto la specie dell’eternità, ma rappresentano forme nelle quali si estrinseca l’evoluzione politica, la storia, la tradizione, la psicologia di un determinato paese.
  
Il fascismo supera l’antitesi monarchia-repubblica sulla quale si attardò il democraticismo, caricando la prima di tutte le insufficienze, e apologizzando l’ultima come regime di per­fezione. Ora s’è visto che ci sono repubbliche intimamente reazionarie o assolutistiche, e monarchie che accolgono le più ardite esperienze politiche e sociali.
  
«La ragione, la scienza — diceva Renan che ebbe delle illumi­nazioni prefasciste, in una delle sue Meditazioni filosofiche —, sono dei prodotti dell’umanità, ma volere la ragione direttamente per il popolo e attraverso il popolo è una chimera. Non è necessario per l’esistenza della ragione che tutto il mondo la conosca. In ogni caso se tale iniziazione dovesse farsi non si farebbe attraverso la bassa democrazia, che sembra dover con­durre all’estinzione di ogni cultura difficile, e di ogni più alta disciplina. Il principio che la società esiste solo per il benessere e la libertà degl’individui che la compongono non sembra es­sere conforme ai piani della natura, piani nei quali la specie sola è presa in considerazione e l’individuo sembra sacrificato. È da fortemente temere che l’ultima parola della democrazia cosi, intesa (mi affretto in dire che si può intendere anche diversa­mente) non sia uno stato sociale nel quale una massa degene­rata non avrebbe altra preoccupazione che godere i piaceri ignobili dell’uomo volgare».
  
Fin qui Renan. Il fascismo respinge nella democrazia l’as­surda menzogna convenzionale dell’egualitarismo politico e l’abito della irresponsabilità collettiva e il mito della felicità e del progresso indefinito. Ma, se la democrazia può essere diver­samente intesa, cioè se democrazia significa non respingere il popolo ai margini dello stato, il fascismo potè da chi scrive essere definito una «democrazia organizzata, centralizzata, auto­ritaria».
  
Di fronte alle dottrine liberali, il fascismo è in atteggiamento di assoluta opposizione, e nel campo della politica e in quello dell’economia. Non bisogna esagerare — a scopi semplicemente di polemica attuale — l’importanza del liberalismo nel secolo scorso, e fare di quella che fu una delle numerose dottrine sbocciate in quel secolo, una religione dell’umanità per tutti i tempi presenti e futuri. Il liberalismo non fiorì che per un quin­dicennio. Nacque nel 1830 come reazione alla Santa Alleanza che voleva respingere l’Europa al pre-’89 ed ebbe il suo anno di splendore nel 1848 quando anche Pio IX fu liberale [questo nella personale lettura di Mussolini, alquanto surreale, NdR].
  
Subito dopo cominciò la decadenza. Se il ’48 fu un anno di luce e di poesia, il ’49 fu un anno di tenebre e di tragedia; La repubblica di Roma fu uccisa da un’altra repubblica, quella di Francia. Nello stesso anno, Marx lanciava il vangelo della religione del sociali­smo, col famoso Manifesto dei comunisti. Nel 1851 Napoleone III fa il suo illiberale colpo di stato e regna sulla Francia fino al 1870, quando fu rovesciato da un moto di popolo, ma in seguito a una disfatta militare fra le più grandi che conti la storia. Il vittorioso è Bismarck, il quale non seppe mai dove stesse di casa la religione della libertà e di quali profeti si servisse. È sintoma­tico che un popolo di alta civiltà, come il popolo tedesco, abbia ignorato in pieno, per tutto il secolo XIX, la religione della libertà. Non c’è che una parentesi. Rappresentata da quello che è stato chiamato il «ridicolo parlamento di Francoforte», che durò una stagione. La Germania ha raggiunto la sua unità nazionale al di fuori del liberalismo, contro il liberalismo, dottrina che sermbra estranea all’anima tedesca, anima essenzialmente monar­chica, mentre il liberalismo è l’anticamera storica e logica del­l’anarchia. Le tappe dell’unità tedesca sono le tre guerre del ’64’ ’66, ’70, guidate da «liberali» come Moltke e Bismarck. Quanto’ all’unità italiana, il liberalismo vi ha avuto una parte assoluta­mente inferiore all’apporto dato da Mazzini e da Garibaldi che liberali non furono. Senza l’intervento dell’illiberale Napoleone, non avremmo avuto la Lombardia, e senza l’aiuto dell’illiberale Bismarck a Sadowa e a Sedan, molto probabilmente non avremmo avuto nel ’66, la Venezia; e nel 1870 non saremmo entrati a Roma.
  
Dal 1870 al 1915, corre il periodo nel quale gli stessi sacerdoti del nuovo credo accusano il crepuscolo della loro religione: battuta in breccia dal decadentismo nella lette­ratura, dall’attivismo nella pratica. Attivismo: cioè nazionalismo, futurismo, fascismo. Il secolo «liberale» dopo avere accumulato un’infinità di nodi gordiani, cerca di scioglierli con l’ecatombe della guerra mondiale. Mai nessuna religione impose così im­mane sacrificio. Gli dei del liberalismo avevano sete di sangue? Ora il liberalismo sta per chiudere le porte dei suoi templi de­serti perché i popoli sentono che il suo agnosticismo nell’eco­nomia, il suo indifferentismo nella politica e nella morale con­durrebbe, come ha condotto, a sicura rovina gli stati. Si spiega con ciò che tutte le esperienze politiche del mondo contempo­raneo sono antiliberali ed è supremamente ridicolo volerle perciò classificare fuori della storia; come se la storia fosse una bandita di caccia riservata al liberalismo e ai suoi professori, come se il liberalismo fosse la parola definitiva e non più superabile della civiltà.
  
Le negazioni fasciste del socialismo, della democrazia, del liberalismo, non devono tuttavia far credere che il fascismo vo­glia respingere il mondo a quello che esso era prima di quel 1789, che viene indicato come l’anno di apertura del secolo demo-liberale. Non si torna indietro. La dottrina fascista non ha eletto a suo profeta De Maistre. L’assolutismo monarchico fu, e cosi pure ogni ecclesiolatria. Cosi «furono» i privilegi feudali e la divisione in caste impenetrabili e non comunicabili fra di loro.
  
Il  concetto dì autorità fascista non ha niente a che vedere con lo stato di polizia. Un partito che governa totalitariamente una na­zione, è un fatto nuovo nella storia. Non sono possibili riferi­menti e confronti. Il fascismo dalle macerie delle dottrine libe­rali, socialistiche, democratiche, trae quegli elementi che hanno ancora un valore di vita. Mantiene quelli che si potrebbero dire fatti acquisiti della storia, respinge tutto il resto, cioè il concetto di una dottrina buona per tutti i tempi e per tutti i popoli.
  
Ammesso che il secolo XIX sia stato il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia, non è detto che anche il se­colo XX debba essere il secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia. Le dottrine politiche passano, i popoli restano. Si può pensare che questo sia il secolo dell’autorità, un secolo di «destra», un secolo fascista; se il XIX fu il secolo dell’indi­viduo (liberalismo significa individualismo), si può pensare che questo sia il secolo «collettivo» e quindi il secolo dello stato. Che una nuova dottrina possa utilizzare gli elementi ancora vitali di altre dottrine è perfettamente logico.
   
Nessuna dottrina nacque tutta nuova, lucente, mai vista. Nes­suna dottrina può vantare una «originalità» assoluta. Essa è legata, non fosse che storicamente, alle altre dottrine che furono, alle altre dottrine che saranno. Cosi il socialismo scientifico di Marx è legato al socialismo utopistico dei Fourier, degli Owen, dei Saint-Simon; cosi il liberalismo dell’ ‘800 si riattacca a tutto il movimento illuministico del ‘700. Così le dottrine demo­cratiche sono legate all’Enciclopedia. Ogni dottrina tende a indirizzare l’attività degli uomini verso un determinato obiettivo; ma l’attività degli uomini reagisce sulla dottrina, la trasforma, l’adatta alle nuove necessità o la supera. La dottrina, quindi, dev’essere essa stessa non un’esercitazione di parole, ma un atto di vita. In ciò le venature pragmatistiche del fascismo, la sua volontà di potenza, il suo volere essere, la sua posizione di fronte al fatto «violenza» e al suo valore.
  
Caposaldo della dottrina fascista è la concezione dello stato, della sua essenza, dei suoi compiti, delle sue finalità. Per il fa­scismo lo stato è un assoluto, davanti al quale individui e gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono «pensabili» in quanto siano nello stato. Lo stato liberale non dirige il giuoco e lo sviluppo materiale e spirituale delle collettività, ma si limita a registrare i risultati; lo stato fascista ha una sua consapevolezza, una sua volontà; per questo si chiama uno stato «etico».
  
Nel 1929 alla prima assemblea quinquennale del regime io dicevo:
Para el fascismo el estado no es el guardián nocturno que se oc­upa solamente de la seguridad personal de los ciudadanos; no es mucho menos una organización con fines puramente materiales, como la de garantizar un cierto bienestar o una relativa convivencia social pacífica, en cuyo caso para realizarlo bastaría un consejo de administración; no es tampocu una creación de política pura, sin adherencia con la realidad material y compleja de la vida de los individuos y la de los pueblos. El estado así como lo concibe y actúa el fascismo es un hecho espiritual y moral, puesto que concreta la organización política, jurídica y económica de la nación, y tal organización es, en su surgir y en su desarrollo, una manifestación del espíritu. El estado es garante de la seguridad interna y externa, pero es también el custodio y el transmisor del espíritu del pueblo así omo fue e en los siglos elaborado en la lengua, en la costumbre, en la fe. El estado no es solamente presente, sino que es también pasado y sobre todo futuro. Es el  estado que trascendiendo el límite breve de las vidas individuales representa la consciencia inmanente de la nación. Las formas en las cuales los estados se expresan cambia, pero la necesidad permanece. Es el estado que educa a los ciudadanos en la virtud civil, lo vuelve consciente de su misión, le solicita a la unidad; armoniza sus intereses en la justicia; tra­manda las conquistas del pensamiento en las ciencias, en la humana solidaridad; lleva a los hombres de la vida elemental de la tribu a la más alta expresión humana de poder que es el imperio; confía a los siglos los nombres de aquellos que mueren por su integridad o por obedecer a sus leyes; addita como ejemplo y recomienda a las generaciones que vendrán los capitanes que lo acrecentaron de territorio y los genios que lo iluminaron de gloria. Cuando declina el sentido del estado y prevalecen las tendencias disociatrices y centrífugas de los individuos o de los grupos, las sociedades nacionales van al través.
Desde 1929 hasta hoy, la evolución económica política universal ha reforzado aún estas posiciones doctrinales.
  
Chi giganteggia è lo stato. Chi può risolvere le drammatiche contraddizioni del capitalismo è lo stato. Quella che si chiama crisi, non si può ri­solvere se non dallo stato, entro lo stato. Dove sono le ombre dei Jules Simon, che agli albori del liberalismo proclamavano che lo stato deve lavorare a rendersi inutile e a preparare le sue dimissioni? Dei MacCulloch, che nella seconda metà del secolo scorso affermavano che lo stato deve astenersi dal troppo governare? E che cosa direbbe mai dinnanzi ai continui, solle­citati, inevitabili interventi dello stato nelle vicende economiche, l’inglese Bentham, secondo il quale l’industria avrebbe dovuto chiedere allo stato soltanto di essere lasciata in pace o il tedesco Humboldt, secondo il quale lo stato «ozioso» doveva essere considerato il migliore?
  
Vero è che la seconda ondata degli economisti liberali fu meno estremista della prima e già lo stesso Smith apriva — sia pure cautamente — la porta agl’interventi dello stato nell’economia. Se chi dice liberalismo dice individuo, chi dice fascismo dice stato. Ma lo stato fascista è unico ed è una creazione originale. Non è reazionario, ma rivoluzionario, in quanto anticipa le soluzioni di determinati problemi universali quali sono posti altrove nel campo politico dal frazionamento dei partiti, dal prepotere del parlamentarismo, dall’irresponsabilità delle assemblee; nel campo economico dalle funzioni sindacali sempre più numerose e potenti sia nel settore operaio come in quello industriale, dai loro conflitti e dalle loro intese; nel campo morale dalla necessità dell’ordine, della disciplina, della obbe­dienza a quelli che sono i dettami morali della patria.
  
El fascismo quiere el estado fuerte, orgánico y al mismo tiempo apoyado sobre una larga base popular. El estado fascista ha reivindicado para sí también el campo de la economía y, por medio de las instituciones corporativas, sociales y educativas por él creadas, el sentido del estado llega hasta  los extremos más lejanos y en el estado circulan, encuadradas en las respectivas organizaciones, todas las fuerzas políticas, económicas y espirituales de la nación. Un estado que se apoya sobre millones de individuos que lo reconocen, lo oyen y están prontos a servirlo, no es el estado tiránico del señor medieval. No tiene nada de común con los estados absolutistas de antes o después del ’89. El individuo en el estado fascista no es anulado, sino más que todo multiplicado, así como en un regimiento un soldado no es disminuido, sino multiplicado por el número de sus camaradas. El estado fascista organiza la nación, pero deja después márgenes suficientes para los individuos; esto ha limitado las libertades inútiles o nocivas, y ha conservado las esenciales. Quien juzga sobre este terreno no puede ser el individuo, sino solamente el estado.
   
El estado fascista no permanece indiferente frente al hecho religioso en general y a aquella particular religión positiva que es el catolicismo italiano. El estado no tiene una teología, pero tiene una moral. En el estado fascista la religión es considerada como una de las manifestaciones más profundas del espíritu; no viene, por tanto, solamente respetada, sino defendida y protegida. El estado fa­scista, no crea un «Dios» suyo así como quiso hacer en un cierto momento en los delirio extremos de la Convención, Robespierre; ni busca vanamente cancelarlo de las almas como hace el bolche­vismo; el fascismo respeta el Dios de los ascetas, de los santos, de los héroes y también el Dios así como es visto y rezado por el corazón ingenuo y primitivo del pueblo.
   
El estado fascista es una voluntad de potencia y de imperio. La tra­dición romana es aquí una idea de fuerza.
  
En la doctrina del fa­scismo el imperio no es solamente una expresión territorial o militar o mercantil, sino espiritual o moral. Se puede pensar en un imperio, esto es, en una nación que directamente o indirectamente guía a otras naciones sin necesidad de conquistar un solo kilómetro cuadrado de territorio. Para el fascismo la tendencia al im­perio, esto es, a la expansión de las naciones, es una manifestación de vitalidad; su contrario, o el concentrarse en sus fronteras, es un signo de deca­dencia: los pueblos que surgen o resurgen son imperialistas, los pueblos que mueren son renunciatarios.
  
El fascismo es la doctrina más adecuada para representar las tendencias, los estados de ánimo de un pueblo como el italiano, que resurge después de muchos siglos de abandono o de servidumbre extranjera. Pero el imperio pide disciplina, coordinación de los esfuerzos, deber y sacricicio; esto explica muchos aspectos de la acción práctica del régimen y la dirección de muchas fuerzas del estado, y la severidad necesaria contra aquellos que quisieren oponerse a este movimiento espontáneo y fatal de la Italia en el siglo XX y oponerse agitando las ideologías superadas del siglo XIX, repudiadas donde se han osado grandes experimentos de transformaciones políticas y sociales: nunca antes como en este momento, los pueblos han tenido sed de autoridad, de directivas, de orden. Si cada siglo tiene su doctrina, por mil indicios aparece que la del siglo actual es el fascismo. Que sea una doctrina de vida, lo muestra el hecho que ha suscitado una fe: que la fe había conquistado los ánimos lo demuestra el hecho que el fascismo ha tenido sus caídos y sus mártires.
   
El  fascismo tiene ahora en el mundo la universalidad de todas las doctrinas que, realizándose, representan un momento en la historia del espíritu humano.



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