El tomo XIV de la Enciclopedia Italiana
publica, en la segunda parte de la voz Fascismo, el siguiente escrito
del Duce dedicado a la doctrina política y social del Fascismo.
Cuando, en el ahora lejano marzo del
1919, por las columnas del Popolo d’Italia yo convoqué en Milán a los supérstites interventistas-intervenidos que me habían seguido casi desde la constitución de los Fasci d’azione rivoluzionaria —acaecida en enero de 1915— no había en mi espíritu ningún plano doctrinal específico. De una sola doctrina yo extraigo la experiencia vista: la del
socialismo desde 1903-04 hasta el invierno de 1914: cerca de un decenio.
Experiencia de gregario y de jefe, mas no experiencia doctrinal. Mi doctrina también en aquel período, era la doctrina de la acción. No existía una doctrina unívoca y universalmente aceptada del socialismo casi hasta 1905, cuando comenzó en Alemania el movimiento revisionista haciendo jefe
a Bernstein e per contro si formò, nell’altalena delle
tendenze, un movimento di sinistra rivoluzionario, che in Italia non
uscì mai dal campo delle frasi, mentre, nel socialismo russo, fu il
preludio del bolscevismo. Riformismo, rivoluzionarismo, centrismo, di
questa terminologia anche gli echi sono spenti, mentre nel grande fiume
del fascismo troverete i filoni che si dipartirono dal Sorel, dal
Peguy, dal Lagardelle del Mouvement socialiste e dalla coorte
dei sindacalisti italiani, che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota
di novità nell’ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e
cloroformizzato dalla fornicazione giolitlinna, con le Pagine libere di Olivetti, La Lupa di Orano, il Divenire sociale di Enrico Leone.
Nel 1919, finita la guerra, il
socialismo era già morto come dottrina: esisteva solo come rancore,
aveva ancora una sola possibilità, specialmente in Italia, la
rappresaglia contro coloro che avevano voluto la guerra e che dovevano
«espiarla». Il Popolo d’Italia recava nel sottotitolo quotidiano dei combattenti dei produttori.
La parola «produttori» era già l’espressione di un indirizzo mentale.
Il fascismo non fu tenuto a balia da una dottrina elaborata in
precedenza, a tavolino: nacque da un bisogno di azione e fu azione; non
fu partito, ma, nei primi due anni, antipartito e movimento. Il nome che
io diedi all’organizzazione, ne fissava i caratteri. Eppure chi
rilegga, nei fogli oramai gualciti dell’epoca, il resoconto dell’adunata
costitutiva dei Fasci italiani di combattimento, non troverà
una dottrina, ma una serie di spunti, di anticipazioni, di accenni, che,
liberati dall’inevitabile ganga delle contingenze, dovevano poi, dopo
alcuni anni, svilupparsi in una serie di posizioni dottrinali, che
facevano del fascismo una dottrina politica a sé stante, in confronto di
tutte le altre e passate e contemporanee. «Se la borghesia, dicevo
allora, crede di trovare in noi dei parafulmini si inganna. Noi dobbiamo
andare incontro al lavoro… Vogliamo abituare le classi operaie alla
capacità direttiva, anche per convincerle che non è facile mandare
avanti una industria o un commercio… Combatteremo il retroguardismo
tecnico e spirituale… Aperta la successione del regime noi non dobbiamo
essere degli imbelli. Dobbiamo correre; se il regime sarà superato
saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Il diritto di successione
ci viene perché spingemmo il paese alla guerra e lo conducemmo alla
vittoria! L’attuale rappresentanza politica non ci può bastare, vogliamo
una rappresentanza diretta dei singoli interessi… Si potrebbe dire
contro questo programma che si ritorna alle corporazioni. Non importa!…
Vorrei perciò che l’assemblea accettasse le rivendicazioni del
sindacalismo nazionale dal punto di vista economico… ».
Non è singolare che sin dalla prima giornata di Piazza San Sepolcro risuoni la parola corporazione che doveva, nel corso della Rivoluzione, significare una delle creazioni legislative e sociali alla base del regime?
Gli anni che precedettero la marcia su
Roma furono anni durante i quali le necessità dell’azione non
tollerarono indagini o complete elaborazioni dottrinali. Si battagliava
nelle città e nei villaggi. Si discuteva, ma — quel ch’è più sacro e
importante — si moriva. Si sapeva morire. La dottrina — bell’è formata,
con divisione di capitoli e paragrafi e contorno di elucubrazioni —
poteva mancare; ma c’era a sostituirla qualche cosa di più decisivo: la
fede. Purtuttavia, chi rimemori sulla scorta dei libri, degli articoli,
dei voti dei congressi, dei discorsi maggiori e minori, chi sappia
indagare e scegliere, troverà che fondamenti della dottrina furono
gettati mentre infuriava la battaglia. È precisamente in quegli anni,
che anche il pensiero fascista si arma, si raffina, procede verso una
sua organizzazione. I problemi dell’individuo e dello stato; i problemi
dell’autorità e della libertà; i problemi politici e sociali e quelli
più specificatamente nazionali; la lotta contro le dottrine liberali,
democratiche, socialistiche, massoniche, popolaresche fu condotta
contemporaneamente alle «spedizioni punitive». Ma poiché mancò il
«sistema» si negò dagli avversari in malafede al fascismo ogni capacità
di dottrina, mentre la dottrina veniva sorgendo, sia pure
tumultuosamente, dapprima sotto l’aspetto di una negazione violenta e
dogmatica come accade di tutte le idee che esordiscono, poi sotto
l’aspetto positivo di una costruzione, che trovava, successivamente
neggli anni 1926, ’27, ’28, la sua realizzazione nelle leggi e
negl’istituti del regime.
El fascismo es hoy netamente individualizado no solo como régimen, sino como doctrina. Esta palabra va
interpretada en el sentido que hoy el fascismo, ejercitando su crítica
sobre sí mismo y sobre los otros, tiene su propio e inconfundible punto de
vista, de referencia —y por tanto de dirección— ante todos los problemas que angustian, en las cosas o en las inteligencias, a los pueblos del mundo.
Anzitutto il fascismo, per quanto
riguarda, in generale, l’avvenire e lo sviluppo dell’umanità, e a parte
ogni considerazione di politica attuale, non crede alla posibilità né
all’utilità della pace perpetua. Respinge quindi il pacifismo che
nasconde una rinuncia alla lotta e una viltà, di fronte al sacrificio.
Solo la guerra porta al massimo di tensione tutte le energie umane e
imprime un sigillo di nobiltà ai popoli che hanno la virtù di
affrontarla. Tutte le altre prove sono dei sostituti, che non pongono
mai l’uomo di fronte a se stesso, nell’alternativa della vita e della
morte. Una dottrina, quindi, che parta dal postulato pregiudiziale della
pace, è estranea al fascismo; cosi come estranee allo spirito del
fascismo, anche se accettate per quel tanto di utilità che possano avere
in determinate situazioni politiche, sono tutte le costruzioni
internazionalistiche e societarie, le quali, come la storia dimostra, si
possono disperdere al vento quando elementi sentimentali, ideali e
pratici muovono a tempesta il cuore dei popoli.
Questo spirito antipacifista, il
fascismo lo trasporta anche nella vita degl’individui. L’orgoglioso
motto squadrista «me ne frego», scritto sulle bende di una ferita, è un
atto di filosofia non soltanto stoica, è il sunto di una dottrina non
soltanto politica: è l’educazione al combattimento, l’accettazione dei
rischi che esso comporta; è un nuovo stile di vita italiano. Cosi il
fascista accetta, ama la vita, ignora e ritiene vile il suicidio;
comprende la vita come dovere, elevazione, conquista: la vita che deve
essere alta e piena; vissuta per sé, ma soprattutto per gli altri vicini
e lontani, presenti e futuri.
La politica «demografica» del regime è
la conseguenza di queste premesse. Anche il fascista ama infatti il suo
prossimo, ma questo «prossimo» non è per lui un concetto vago e
inafferrabile: l’amore per il prossimo non impedisce le necessarie
educatrici severità, e ancora meno le differenziazioni e le distanze.
Il fascismo respinge gli abbracciamenti universali e, pur vivendo nella
comunità dei popoli civili, li guarda vigilante e diffidente negli
occhi, li segue nei loro stati d’animo e nella trasformazione dèi loro
interessi, né si lascia ingannare da apparenze mutevoli e fallaci.
Una siffatta concezione della vita porta
il fascismo a essere la negazione recisa di quella dottrina che
costituì la base del socialismo cosiddetto scientifico o marxiano: la
dottrina del materialismo storico, secondo il quale la storia delle
civiltà umane si spiegherebbe soltanto con la lotta d’interessi fra i
diversi gruppi sociali e col cambiamento dei mezzi e strumenti di
produzione. Che le vicende dell’economia — scoperte di materie prime,
nuovi metodi di lavoro, invenzioni scientifiche — abbiano una loro
importanza, nessuno nega, ma che esse bastino a spiegare la storia umana
escludendone tutti gli altri fattori è assurdo: il fascismo crede
ancora e sempre nella santità e nell’eroismo, cioè in atti nei quali
nessun motivo economico — lontano o vicino — agisce.
Negato il materialismo storico, per cui
gli uomini non sarebbero che comparse della storia, che appaiono e
scompaiono alla superficie dei flutti, mentre nel profondo si agitano e
lavorano le vere forze direttrici, è negata anche la lotta di classe,
immutabile e irreparabile, che di questa concezione economicistica
della storia è la naturale figliazione, e soprattutto è negato che la
lotta di classe sia l’agente preponderante delle trasformazioni
sociali. Colpito il socialismo in questi due capisaldi della sua
dottrina, di esso non resta allora che l’aspirazione sentimentale —
antica come l’umanità — a una convivenza sociale nella quale siano
alleviate le sofferenze e i dolori della più umile gente. Ma qui il
fascismo respinge il concetto di «felicità» economica, che si
realizzerebbe socialisticamente e quasi automaticamente a un dato
momento dell’evoluzione dell’economia, con l’assicurare a tutti il
massimo di benessere. Il fascismo nega il concetto materialistico di
«felicità» come possibile e lo abbandona agli economisti della prima
metà del ‘700; nega cioè l’equazione benessere-felicità, che
convertirebbe gli uomini in animali di una cosa sola pensosi: quella di
essere pasciuti e ingrassati, ridotti, quindi, alla pura e semplice
vita vegetativa.
Dopo il socialismo, il fascismo batte in
breccia tutto il complesso delle ideologie democratiche e le respinge,
sia nelle loro premesse teoriche, sia nelle loro applicazioni o
strumentazioni pratiche. Il fascismo nega che il numero, per il semplice
fatto di essere numero, possa dirigere le società umane; nega che
questo numero possa governare attraverso una consultazione periodica;
afferma la disuguaglianza irrimediabile e feconda e benefìca degli
uomini che non si possono livellare attraverso un fatto meccanico ed
estrinseco com’è il suffragio universale.
Regimi democratici possono essere
definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo
l’illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta
in altre forze talora irresponsabili e segrete. La democrazia è un
regime senza re, ma con moltissimi re talora più esclusivi, tirannici e
rovinosi che un solo re che sia tiranno. Questo spiega perché il
fascismo, pur avendo prima del 1922 — per ragioni di contingenza —
assunto un atteggiamento di tendenzialità repubblicana, vi rinunciò
prima della marcia su Roma, convinto che la questione delle forme
politiche di uno stato non è, oggi, preminente e che studiando nel
campionario delle monarchie passate e presenti, delle repubbliche
passate e presenti, risulta che monarchia e repubblica non sono da
giudicare sotto la specie dell’eternità, ma rappresentano forme nelle
quali si estrinseca l’evoluzione politica, la storia, la tradizione, la
psicologia di un determinato paese.
Il fascismo supera l’antitesi
monarchia-repubblica sulla quale si attardò il democraticismo, caricando
la prima di tutte le insufficienze, e apologizzando l’ultima come
regime di perfezione. Ora s’è visto che ci sono repubbliche intimamente
reazionarie o assolutistiche, e monarchie che accolgono le più ardite
esperienze politiche e sociali.
«La ragione, la scienza — diceva Renan che ebbe delle illuminazioni prefasciste, in una delle sue Meditazioni filosofiche
—, sono dei prodotti dell’umanità, ma volere la ragione direttamente
per il popolo e attraverso il popolo è una chimera. Non è necessario per
l’esistenza della ragione che tutto il mondo la conosca. In ogni caso
se tale iniziazione dovesse farsi non si farebbe attraverso la bassa
democrazia, che sembra dover condurre all’estinzione di ogni cultura
difficile, e di ogni più alta disciplina. Il principio che la società
esiste solo per il benessere e la libertà degl’individui che la
compongono non sembra essere conforme ai piani della natura, piani nei
quali la specie sola è presa in considerazione e l’individuo sembra
sacrificato. È da fortemente temere che l’ultima parola della democrazia
cosi, intesa (mi affretto in dire che si può intendere anche
diversamente) non sia uno stato sociale nel quale una massa degenerata
non avrebbe altra preoccupazione che godere i piaceri ignobili
dell’uomo volgare».
Fin qui Renan. Il fascismo respinge
nella democrazia l’assurda menzogna convenzionale dell’egualitarismo
politico e l’abito della irresponsabilità collettiva e il mito della
felicità e del progresso indefinito. Ma, se la democrazia può essere
diversamente intesa, cioè se democrazia significa non respingere il
popolo ai margini dello stato, il fascismo potè da chi scrive essere
definito una «democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria».
Di fronte alle dottrine liberali, il
fascismo è in atteggiamento di assoluta opposizione, e nel campo della
politica e in quello dell’economia. Non bisogna esagerare — a scopi
semplicemente di polemica attuale — l’importanza del liberalismo nel
secolo scorso, e fare di quella che fu una delle numerose dottrine
sbocciate in quel secolo, una religione dell’umanità per tutti i tempi
presenti e futuri. Il liberalismo non fiorì che per un quindicennio.
Nacque nel 1830 come reazione alla Santa Alleanza che voleva respingere
l’Europa al pre-’89 ed ebbe il suo anno di splendore nel 1848 quando
anche Pio IX fu liberale [questo nella personale lettura di Mussolini,
alquanto surreale, NdR].
Subito dopo cominciò la decadenza. Se il ’48 fu un anno di luce e di poesia, il ’49 fu un anno di tenebre e di tragedia; La repubblica di Roma fu uccisa da un’altra repubblica, quella di Francia. Nello stesso anno, Marx lanciava il vangelo della religione del socialismo, col famoso Manifesto dei comunisti.
Nel 1851 Napoleone III fa il suo illiberale colpo di stato e regna
sulla Francia fino al 1870, quando fu rovesciato da un moto di popolo,
ma in seguito a una disfatta militare fra le più grandi che conti la
storia. Il vittorioso è Bismarck, il quale non seppe mai dove stesse di
casa la religione della libertà e di quali profeti si servisse. È
sintomatico che un popolo di alta civiltà, come il popolo tedesco,
abbia ignorato in pieno, per tutto il secolo XIX, la religione della
libertà. Non c’è che una parentesi. Rappresentata da quello che è stato
chiamato il «ridicolo parlamento di Francoforte», che durò una stagione.
La Germania ha raggiunto la sua unità nazionale al di fuori del
liberalismo, contro il liberalismo, dottrina che sermbra estranea
all’anima tedesca, anima essenzialmente monarchica, mentre il
liberalismo è l’anticamera storica e logica dell’anarchia. Le tappe
dell’unità tedesca sono le tre guerre del ’64’ ’66, ’70, guidate da
«liberali» come Moltke e Bismarck. Quanto’ all’unità italiana, il
liberalismo vi ha avuto una parte assolutamente inferiore all’apporto
dato da Mazzini e da Garibaldi che liberali non furono. Senza
l’intervento dell’illiberale Napoleone, non avremmo avuto la Lombardia, e
senza l’aiuto dell’illiberale Bismarck a Sadowa e a Sedan, molto
probabilmente non avremmo avuto nel ’66, la Venezia; e nel 1870 non
saremmo entrati a Roma.
Dal 1870 al 1915, corre il periodo nel
quale gli stessi sacerdoti del nuovo credo accusano il crepuscolo della
loro religione: battuta in breccia dal decadentismo nella letteratura,
dall’attivismo nella pratica. Attivismo: cioè nazionalismo, futurismo,
fascismo. Il secolo «liberale» dopo avere accumulato un’infinità di nodi
gordiani, cerca di scioglierli con l’ecatombe della guerra mondiale.
Mai nessuna religione impose così immane sacrificio. Gli dei del
liberalismo avevano sete di sangue? Ora il liberalismo sta per chiudere
le porte dei suoi templi deserti perché i popoli sentono che il suo
agnosticismo nell’economia, il suo indifferentismo nella politica e
nella morale condurrebbe, come ha condotto, a sicura rovina gli stati.
Si spiega con ciò che tutte le esperienze politiche del mondo
contemporaneo sono antiliberali ed è supremamente ridicolo volerle
perciò classificare fuori della storia; come se la storia fosse una
bandita di caccia riservata al liberalismo e ai suoi professori, come se
il liberalismo fosse la parola definitiva e non più superabile della
civiltà.
Le negazioni fasciste del socialismo,
della democrazia, del liberalismo, non devono tuttavia far credere che
il fascismo voglia respingere il mondo a quello che esso era prima di
quel 1789, che viene indicato come l’anno di apertura del secolo
demo-liberale. Non si torna indietro. La dottrina fascista non ha eletto
a suo profeta De Maistre. L’assolutismo monarchico fu, e cosi pure ogni
ecclesiolatria. Cosi «furono» i privilegi feudali e la divisione in
caste impenetrabili e non comunicabili fra di loro.
Il concetto dì autorità fascista non ha
niente a che vedere con lo stato di polizia. Un partito che governa
totalitariamente una nazione, è un fatto nuovo nella storia. Non sono
possibili riferimenti e confronti. Il fascismo dalle macerie delle
dottrine liberali, socialistiche, democratiche, trae quegli elementi
che hanno ancora un valore di vita. Mantiene quelli che si potrebbero
dire fatti acquisiti della storia, respinge tutto il resto, cioè il
concetto di una dottrina buona per tutti i tempi e per tutti i popoli.
Ammesso che il secolo XIX sia stato il
secolo del socialismo, del liberalismo, della democrazia, non è detto
che anche il secolo XX debba essere il secolo del socialismo, del
liberalismo, della democrazia. Le dottrine politiche passano, i popoli
restano. Si può pensare che questo sia il secolo dell’autorità, un
secolo di «destra», un secolo fascista; se il XIX fu il secolo
dell’individuo (liberalismo significa individualismo), si può pensare
che questo sia il secolo «collettivo» e quindi il secolo dello stato.
Che una nuova dottrina possa utilizzare gli elementi ancora vitali di
altre dottrine è perfettamente logico.
Nessuna dottrina nacque tutta nuova,
lucente, mai vista. Nessuna dottrina può vantare una «originalità»
assoluta. Essa è legata, non fosse che storicamente, alle altre dottrine
che furono, alle altre dottrine che saranno. Cosi il socialismo
scientifico di Marx è legato al socialismo utopistico dei Fourier, degli
Owen, dei Saint-Simon; cosi il liberalismo dell’ ‘800 si riattacca a
tutto il movimento illuministico del ‘700. Così le dottrine
democratiche sono legate all’Enciclopedia. Ogni dottrina tende
a indirizzare l’attività degli uomini verso un determinato obiettivo;
ma l’attività degli uomini reagisce sulla dottrina, la trasforma,
l’adatta alle nuove necessità o la supera. La dottrina, quindi,
dev’essere essa stessa non un’esercitazione di parole, ma un atto di
vita. In ciò le venature pragmatistiche del fascismo, la sua volontà di
potenza, il suo volere essere, la sua posizione di fronte al fatto
«violenza» e al suo valore.
Caposaldo della dottrina fascista è la
concezione dello stato, della sua essenza, dei suoi compiti, delle sue
finalità. Per il fascismo lo stato è un assoluto, davanti al quale
individui e gruppi sono il relativo. Individui e gruppi sono «pensabili»
in quanto siano nello stato. Lo stato liberale non dirige il giuoco e
lo sviluppo materiale e spirituale delle collettività, ma si limita a
registrare i risultati; lo stato fascista ha una sua consapevolezza, una
sua volontà; per questo si chiama uno stato «etico».
Nel 1929 alla prima assemblea quinquennale del regime io dicevo:
Para el fascismo el estado no es el guardián nocturno que se ocupa solamente de la seguridad personal de los ciudadanos; no es mucho menos una organización con fines puramente materiales, como la de garantizar un cierto bienestar o una relativa convivencia social pacífica, en cuyo caso para realizarlo bastaría un consejo de administración; no es tampocu una creación de política pura, sin adherencia con la realidad material y compleja de la vida de los individuos y la de los pueblos. El estado así como lo concibe y actúa el fascismo es un hecho espiritual y moral, puesto que concreta la organización política, jurídica y económica de la nación, y tal organización es, en su surgir y en su desarrollo, una manifestación del espíritu. El estado es garante de la seguridad interna y externa, pero es también el custodio y el transmisor del espíritu del pueblo así omo fue e en los siglos elaborado en la lengua, en la costumbre, en la fe. El estado no es solamente presente, sino que es también pasado y sobre todo futuro. Es el estado que trascendiendo el límite breve de las vidas individuales representa la consciencia inmanente de la nación. Las formas en las cuales los estados se expresan cambia, pero la necesidad permanece. Es el estado que educa a los ciudadanos en la virtud civil, lo vuelve consciente de su misión, le solicita a la unidad; armoniza sus intereses en la justicia; tramanda las conquistas del pensamiento en las ciencias, en la humana solidaridad; lleva a los hombres de la vida elemental de la tribu a la más alta expresión humana de poder que es el imperio; confía a los siglos los nombres de aquellos que mueren por su integridad o por obedecer a sus leyes; addita como ejemplo y recomienda a las generaciones que vendrán los capitanes que lo acrecentaron de territorio y los genios que lo iluminaron de gloria. Cuando declina el sentido del estado y prevalecen las tendencias disociatrices y centrífugas de los individuos o de los grupos, las sociedades nacionales van al través.
Desde 1929 hasta hoy, la evolución económica política universal ha reforzado aún estas posiciones doctrinales.
Chi giganteggia è lo stato. Chi può
risolvere le drammatiche contraddizioni del capitalismo è lo stato.
Quella che si chiama crisi, non si può risolvere se non dallo stato,
entro lo stato. Dove sono le ombre dei Jules Simon, che agli albori del
liberalismo proclamavano che lo stato deve lavorare a rendersi inutile e a preparare le sue dimissioni? Dei MacCulloch, che nella seconda metà del secolo scorso affermavano che lo stato deve astenersi dal troppo governare?
E che cosa direbbe mai dinnanzi ai continui, sollecitati, inevitabili
interventi dello stato nelle vicende economiche, l’inglese Bentham,
secondo il quale l’industria avrebbe dovuto chiedere allo stato soltanto di essere lasciata in pace o il tedesco Humboldt, secondo il quale lo stato «ozioso» doveva essere considerato il migliore?
Vero è che la seconda ondata degli
economisti liberali fu meno estremista della prima e già lo stesso Smith
apriva — sia pure cautamente — la porta agl’interventi dello stato
nell’economia. Se chi dice liberalismo dice individuo, chi dice fascismo
dice stato. Ma lo stato fascista è unico ed è una creazione originale.
Non è reazionario, ma rivoluzionario, in quanto anticipa le soluzioni di
determinati problemi universali quali sono posti altrove nel campo
politico dal frazionamento dei partiti, dal prepotere del
parlamentarismo, dall’irresponsabilità delle assemblee; nel campo
economico dalle funzioni sindacali sempre più numerose e potenti sia nel
settore operaio come in quello industriale, dai loro conflitti e dalle
loro intese; nel campo morale dalla necessità dell’ordine, della
disciplina, della obbedienza a quelli che sono i dettami morali della
patria.
El fascismo quiere el estado fuerte,
orgánico y al mismo tiempo apoyado sobre una larga base popular. El estado
fascista ha reivindicado para sí también el campo de la economía y, por medio de las instituciones corporativas, sociales y educativas por él creadas, el sentido del estado llega hasta los extremos más lejanos y en el estado circulan,
encuadradas en las respectivas organizaciones, todas las fuerzas políticas, económicas y espirituales de la nación. Un estado que se apoya sobre millones de individuos que lo reconocen, lo oyen y están prontos a servirlo, no es el estado tiránico del señor medieval. No tiene nada de común con los estados absolutistas de antes o después del ’89. El individuo en el
estado fascista no es anulado, sino más que todo multiplicado, así como en un regimiento un soldado no es disminuido, sino multiplicado por el número de sus camaradas. El estado fascista organiza la nación, pero deja después márgenes suficientes para los individuos; esto ha limitado las libertades inútiles o nocivas, y ha conservado las esenciales. Quien juzga sobre este terreno no puede ser el individuo, sino solamente el estado.
El estado fascista no permanece indiferente frente al hecho religioso en general y a aquella
particular religión positiva que es el catolicismo italiano. El estado
no tiene una teología, pero tiene una moral. En el estado fascista la
religión es considerada como una de las manifestaciones más profundas del espíritu; no viene, por tanto, solamente respetada, sino defendida y protegida. El estado fascista, no crea un «Dios» suyo así como quiso hacer en un cierto momento en los delirio extremos de la Convención, Robespierre;
ni busca vanamente cancelarlo de las almas como hace el bolchevismo; el fascismo respeta el Dios de los ascetas, de los santos, de los héroes y también el Dios así como es visto y rezado por el corazón ingenuo y primitivo del pueblo.
El estado fascista es una voluntad de potencia y de imperio. La tradición romana es aquí una idea de fuerza.
En la doctrina del fascismo el imperio
no es solamente una expresión territorial o militar o mercantil, sino espiritual o moral. Se puede pensar en un imperio, esto es, en una nación que directamente o indirectamente guía a otras naciones sin necesidad de conquistar un solo kilómetro cuadrado de territorio. Para el fascismo
la tendencia al imperio, esto es, a la expansión de las naciones, es una manifestación de vitalidad; su contrario, o el concentrarse en sus fronteras, es un
signo de decadencia: los pueblos que surgen o resurgen son imperialistas, los pueblos que mueren son renunciatarios.
El fascismo es la doctrina más adecuada para representar las tendencias, los estados de ánimo de un pueblo como el italiano, que resurge después de muchos siglos de abandono o de servidumbre
extranjera. Pero el imperio pide disciplina, coordinación de los esfuerzos, deber y sacricicio; esto explica muchos aspectos de la acción práctica del régimen y la dirección de muchas fuerzas del estado, y la severidad necesaria contra aquellos que quisieren oponerse a este movimiento espontáneo y fatal de la Italia en el siglo XX y oponerse agitando las ideologías superadas del siglo XIX, repudiadas donde se han osado grandes experimentos de transformaciones políticas y sociales: nunca antes como en este momento, los pueblos han tenido sed de autoridad, de directivas, de orden. Si cada siglo tiene su doctrina, por mil indicios aparece que la del siglo actual es el fascismo. Que sea una doctrina de vida,
lo muestra el hecho que ha suscitado una fe: que la fe había conquistado los ánimos lo demuestra el hecho que el fascismo ha tenido sus caídos y sus mártires.
El fascismo tiene ahora en el mundo la universalidad de todas las doctrinas que, realizándose, representan
un momento en la historia del espíritu humano.
No hay comentarios:
Publicar un comentario
Preferiblemente, los comentarios (y sus respuestas) deben guardar relación al contenido del artículo. De otro modo, su publicación dependerá de la pertinencia del contenido. La blasfemia está estrictamente prohibida. La administración del blog se reserva el derecho de publicación (sin que necesariamente signifique adhesión a su contenido), y renuncia expresa e irrevocablemente a TODA responsabilidad (civil, penal, administrativa, canónica, etc.) por comentarios que no sean de su autoría.