martes, 27 de agosto de 2024

EL ALMA INCORRUPTIBLE, EN TASSO

Traducción de la conferencia especial “Corrúpto córpore, ánima non corrúmpitur. La muerte de Clorinda en el poema de Tasso y en el madrigal de Monteverdi” por Giuliano Zoroddu, dada en Sasari (Cerdeña) el 25 de Febrero de 2023 en el contexto del Seminario Permanente de Estudios Tomistas de la Sociedad Internacional Tomás de Aquino – Sección de Cerdeña (tomado de RADIO SPADA).
   
Tancredo bautizando a Clorinda (Domenico Tintoretto, óleo sobre lienzo. Museo de Bellas Artes de Houston).
   
Eneas Silvio Piccolomini, después papa Pío II, uno de los principales “humanistas”, en su Apología a Martín Mayer, hablando de la Curia Romana y de su ceremonial se expresa así: 
«Si vidéres aut celebrántem Románum Pontíficem aut divína audiéntem, fatéris profécto non esse órdinem, non esse splendórem ac magnificéntiam, nisi apud Románum præsúlem… profécto instar cœléstis hierarchíæ díceres Románam Cúriam, ubi ómnia ordináta, ómnia ex præscrípto statútoque modo dispósita, quæ profécto cum boni viri intúentur, non possunt nisi laudáre». [1]
Me gusta asociar a esta descripción de aquella que era la belleza paradisíaca de la vida litúrgica del Papado hasta la segunda mitad del siglo pasado, a la obra que vamos a ver hoy –la Jerusalén Liberada de Tasso– al ser el ápice de la belleza del poema épico-didascálico cristiano.
  
Torcuato Tasso nació en Sorrento el 11 de marzo de 1544. Entre otros lugares, recibe la formación religiosa también en la abadía benedictina de Cava dei Tirreni, consagrada personalmente por Urbano II, el papa de la primera cruzada, argumento de Jerusalén Liberada. También tiene particular importancia que frecuentase las escuelas napolitanas de la Compañía de Jesús, sagrario de dirección espiritual como de aprendizaje literario. También fue fundamental frecuentar la Universidad de Padua (1560), principalmente para el estudio preciso de la Poética de Aristóteles. Aquí estrecha amistad con Sperone Speroni y Escipión Gonzaga, más tarde promovido a la púrpura cardenalicia por Sixto V. Ya en 1559, con quince años, había escrito los primeros versos de Jerusalén, después Jerusalén Liberada. La escritura de este texto viene retomada hacia 1565-66, cuando Torcuato está en Ferrara al servicio del cardenal Luis de Este y tiene nuevo impulso en el contexto de la guerra al Turco que terminaría con la victoria de las naves cristianas en Lepanto el 7 de octubre de 1571. El despertar del fervor cruzado, y el espíritu de lucha consagrado por el Concilio de Trento, fueron también de estímulo al genio del autor sorrentino en la extensión de un poema épico didascálico, o sea de un poema que gustase con la belleza del estilo y, a través de la belleza (la belleza de los clásicos y de la tradición) enseñase los sagrados valores de la religión [2]. Si badi bene che tutto ciò non fu vissuto dal Tasso come un’imposizione, bensì l’autore aderì sempre alle istanze del cattolicesimo “tridentino” e convintamente si indirizzò nella strada battuta da Omero, da Lucrezio, da Virgilio, dal Petrarca e in ultimo dall’Ariosto, per raggiungere una composizione che fosse ordinata. La stesura della Liberata – o meglio del Goffredo, secondo il titolo che il Tasso avrebbe preferito – può dirsi conclusa nell’anno 1575 [3]. Fece seguito l’opera di revisione che il Tasso fece sia da solo sia sottoponendo la sua opera a un consesso di illustri letterati romani: i suddetti Speroni e Gonzaga; Flaminio de Nobili; e Silvio Antoniano, il Poetino, brillante latinista, membro eminente della Curia Romana dai tempi di Pio IV. Va rigettata l’idea che questa “commissione romana” sia stata una sorta di contraltare “moralistico e pedantesco” al genio del Tasso. Certamente i membri espressero i loro giudizi critici sul testo, in modo particolare l’Antoniano, ma dalle lettere che i cinque si scambiavano emerge una gara d’ingegni non comuni, donde ora scaturiva nel Tasso il convincimento di correggere l’opera sua, ora una ferventissima difesa della stessa. Su tutto giganteggia evidente la tensione (mai soddisfatta) del poeta alla perfezione stilistica nell’obbedienza ai principi dei classici, i quali non sono gabbia alla produzione artistica, ma mezzi necessari perché essa si indirizzi verso il bello. Non si fa grande letteratura se non si seguono i grandi letterati del passato. È bene qui ricordare la definizione del De Sanctis, che chiamò il Tasso «più crudele inquisitore di sé che il Tribunale dell’Inquisizione» [4], riferendosi l’hegeliano storico della letteratura italiana a quel portarsi del poeta al cospetto del Commissario del Sant’Uffizio per accusare sé stesso e l’opera sua di eresia. E ne era egli talmente convinto che, si presentò ai giudici ecclesiastici anche dopo che questi formularono nei suoi confronti l’assoluzione piena. In ciò si palesano anche quei disturbi della mente che si palesarono platealmente nel 1579 e portarono il duca Alfonso II a rinchiuderlo nell’Ospedale di Sant’Anna dove rimase per sette anni. È durante questo isolamento che, il 24 giugno 1581 esce, senza l’approvazione dell’autore, la Gerusalemme Liberata. Un’altra versione uscì a cura di Scipione Gonzaga nel 1584. A questa, nel solo Cinquecento, ne fecero seguito altre per un numero complessivo di 30 edizioni. Il poema subito si impose al pubblico per la sua grandiosità, innescando una accesissima diatriba letteraria: la disputa tra gli ariostisti e i tassisti. Il Tasso stesso partecipò a questa disputa con la sua Apologia della Gerusalemme Liberata publicada en 1585, mientras estaba todavía en Santa Ana, donde saldrá solo el año siguiente. Entre tanto, ya por el 1582, llevaba adelante el frenético e “inquisitorio” labor limæ sul testo della Liberata, che si sarebbe concluso nel 1593, due anni prima della morte, con la pubblicazione della Gerusalemme Conquistata. La Conquistata – «prediletta» dal Tasso ma non dal pubblico – fu dedicata a Cinzio Aldobrandini, cardinal nipote di Clemente VIII, amico del Tasso e suo gran mecenate, che lo aveva accolto a Roma e progettava di decretargli il massimo dei riconoscimenti: l’incoronazione poetica in Campidoglio. La morte impedì però che ciò avvenisse. Il 25 aprile 1595 infatti Torquato Tasso spirava l’anima nel Convento di Sant’Onofrio sul Gianicolo. Scrive l’amico monsignor Antonio Quarenghi in una lettera: 

«La morte del Tasso è stata accompagnata da una particolar grazia di Dio benedetto, perché in questi ultimi giorni le duplicate confessioni, le lagrime e insegnamenti spirituali pieni di pietà e di giudizio, mostrarono che fosse affatto guarito dall’umor malinconico, e che quasi uno spirito gli avesse accostato al naso l’ampolle del suo cervello».

E così parvero adempiersi nel poeta quegli immortali suoi versi del proemio della Liberata:
O Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona
L’alloro caduco cinse comunque la fredda fronte durante i solennissimi funerali disposti dal cardinale Cinzio e dal fratello, cardinale Pietro, cui partecipò parte notevole della prelatura romana e della corte papale. Sarà Pio IX infine, il 24 aprile 1857, a innalzare sulla tomba del Tasso un grandioso monumento, manifestando ancora quella caratteristica peculiare del Papato Romano di essere sommo cultore del Bello, che sicuramente il gran letterato contempla infra i beati cori.

Fatta questa introduzione alla figura di Torquato Tasso entriamo ora in medias res nell’opera sua.
    
La Gerusalemme Liberata, il cui tema è la conquista di Gerusalemme nel 1099, canta le gesta di Goffredo di Buglione, ma anche le vicende amorose di alcuni crociati. La principale è quella fra Tancredi e Clorinda. Tancredi è Tancredi d’Altavilla, uno dei grandi cavalieri che partirono per la Terra Santa a seguito dell’appello di Urbano II; Clorinda invece, personaggio inventato, è la vergine eroina pagana. Verso di lei Tancredi prova un amore non corrisposto. I due sono i protagonisti delle ottave (strofe di otto endecasillabi) del libro XII che andremo a leggere. Il contesto delle ottave è il seguente. Clorinda e Argante sono usciti nottetempo da Gerusalemme per incendiare la torre mobile dei crociati. L’impresa riesce, ma Clorinda viene scoperta dal soldato cristiano Arimone, il quale la ferisce. Nell’atto di inseguirlo, la guerriera pagana, rimane chiusa fuori della città. 
A questo punto si situa l’ottava cinquanta.
Ma poi che intepidí la mente irata
nel sangue del nemico e in sé rivenne,
vide chiuse le porte e intorniata
sé da’ nemici, e morta allor si tenne.
Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata,
nov’arte di salvarsi le sovenne.
Di lor gente s’infinge, e fra gli ignoti
cheta s’avolge; e non è chi la noti.
Ucciso Arimone, Clorinda si scopre circondata da crociati e, deposta la furia, si finge una di loro per salvarsi. Al verso 1 l’aggettivo «irata» ci introduce il primo aspetto di Clorinda, la ferocia guerresca, su cui si tornerà in seguito. Curiosa è anche l’espressione «nov’arte di salvarsi» che sembra quasi un primo indizio dell’epilogo dell’episodio. 
Poi, come lupo tacito s’imbosca
dopo occulto misfatto, e si desvia,
da la confusion, da l’aura fosca
favorita e nascosa, ella se ‘n gía.
Solo Tancredi avien che lei conosca;
egli quivi è sorgiunto alquanto pria;
vi giunse allor ch’essa Arimon uccise:
vide e segnolla, e dietro a lei si mise.
La descrizione di Clorinda che cerca di sfuggire è tratta da Virgilio, onde l’eroina tassesca viene ad assumere i tratti di Arrunte, il quale, come abbiamo in Eneide, XI, 809-13, dopo avere uccisa la vergine Camilla, «velut ille prius quam tela inimica sequantur, / continuo in montis sese avius abdidit altos / occiso pastore lupus magnove iuvenco, / conscius audacis facti, caudamque remulcens / subiecit pavitantem utero silvasque petivit» [5]. Molto importante, nella caratterizzazione del personaggio è, secondo un concetto che affronteremo più avanti, il fatto che l’archetipo letterario della vergine pagana sia un maschio. Al v. 5 abbiamo l’introduzione di Tancredi, paladino cristiano e amante non corrisposto di Clorinda. Questi è il solo che la conosca, ossia la riconosca come un elemento estraneo all’esercito cristiano. In questo verbo, su cui poggia una figura retorica d’antifrasi, si condensa la tragedia della conoscenza, quale per esempio troviamo in Sofocle, del protagonista che è vittima della sua ignoranza o meglio di una conoscenza falsa. Come Edipo, risolutore degli enigmi della Sfinge non riuscirà a risolvere l’enigma suo proprio, così Tancredi solo alla fine riconoscerà veramente colei che ora insegue. Questo ottenebramento della mente è rafforzato dagli aggettivi «occulto» e «fosca».
Vuol ne l’armi provarla: un uom la stima
degno a cui sua virtú si paragone.
Va girando colei l’alpestre cima
verso altra porta, ove d’entrar dispone.
Segue egli impetuoso, onde assai prima
che giunga, in guisa avien che d’armi suone,
ch’ella si volge e grida: «O tu, che porte,
che corri sí?» Risponde: «E guerra e morte».

L’ottava 52 s’apre ancora con l’incapacità di comprensione di Tancredi, che tocca il suo apice nel verso finale quando, rivolto a colei a cui in realtà vorrebbe dare solo il suo amore, minaccia la morte.
«Guerra e morte avrai;» disse «io non rifiuto
darlati, se la cerchi», e ferma attende.
Non vuol Tancredi, che pedon veduto
ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.
E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,
ed aguzza l’orgoglio e l’ire accende;
e vansi a ritrovar non altrimenti
che duo tori gelosi e d’ira ardenti.

L’ottava 53 si apre con la ripresa, secondo la figura retorica di anadiplosi, delle parole guerra e morte. Questa figura retorica è funzionale al rallentamento del ritmo, per cui il Tasso, espertissimo dell’arte retorica, conferisce maggior solennità ai versi e acuisce quella tensione tragica che li caratterizza. Al v. 2 l’aggettivo «ferma» riporta l’attenzione sulla caratterizzazione fortemente virile del personaggio di Clorinda. Questa fermezza richiama la vergiliana Camilla, la quale in Eneide XI, 711, viene definita «interrita», ossia imperterrita. I vv. 3-4 presentano Tancredi come ligio osservante della legge della cavalleria: poiché il suo nemico è a piedi, egli non può affrontarlo se non a piedi e pertanto scende da cavallo. Questo rivivere della cavalleria e dei suoi rituali si oppone a quanto abbiamo nell’Orlando Furioso in cui l’Ariosto, anche risentendo della crisi gravissima dovuta alle guerre d’Italia, la descrive ormai come tramontata e sorpassata da una brutalità rappresentata dal cannone e dall’archibugio. Il verso ha come modello Eneide XI, 710-1, dove vediamo Camilla scendere a cavallo per combattere con Arrunte [6]. Sempre vergiliana l’immagine finale dei due combattenti paragonati a due tori [7]. Turno infatti, in Eneide XII, 103-6 viene paragonato all’indomita bestia prima del duello finale con Enea. Questa similitudine animalesca serve a sottolineare ancora una volta come l’amore che, almeno dal punto di vista dell’innamorato Tancredi, dovrebbe caratterizzare l’incontro dei due personaggi, lasci al contrario il posto a uno scontro feroce, che in pochi istanti annulla quella cavalleria, pur poco prima resuscitata. 
Degne d’un chiaro sol, degne d’un pieno
teatro, opre sarian sí memorande.
Notte, che nel profondo oscuro seno
chiudesti e ne l’oblio fatto sí grande,
piacciati ch’io ne ‘l tragga e ‘n bel sereno
a le future età lo spieghi e mande.
Viva la fama loro; e tra lor gloria
splenda del fosco tuo l’alta memoria.

In questa ottava irrompe il teatro con tutta la sua forza e irrompe quindi la formazione del Tasso nelle scuole dei Gesuiti, attori di primo piano nello sviluppo delle tragedia del Cinquecento [8]. La tragedia dell’amante che inconsapevolmente combatte con l’amata diventa tragedia nel senso della rappresentazione teatrale, riallacciandosi in certo senso ai fasti dell’Atene del V secolo e palesando il poeta come erede, ed erede degno, di una tradizione plurimillenaria. La crisi della ragione, l’esiziale ignoranza del protagonista, che ci rimandano a un Sofocle o a un Euripide, si manifesta poeticamente con quell’apostrofe alla notte nel v. 3. All’oscurità si contrappone il «sole» menzionato al v.1 e il «bel sereno» del v. 5, portatori però di una luce rivelatrice di realtà dolorose. 

Non schivar, non parar, non ritirarsi
voglion costor, né qui destrezza ha parte.
Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi:
toglie l’ombra e ‘l furor l’uso de l’arte.
Odi le spade orribilmente urtarsi
a mezzo il ferro, il piè d’orma non parte;
sempre è il piè fermo e la man sempre ‘n moto,
né scende taglio in van, né punta a vòto.

Se l’ottava 54 ci ha mostrato il Tasso, maestro di teatro, l’ottava 55, nei primi suoi tre versi, ce lo fa vedere come dottissimo nell’arte schermistica. Il v. 5, con l’avverbio «orribilmente» al centro del verso e con l’allitterazione della r, acuisce vieppiù e colorisce di brutalità quella caoticità introdotta dall’iniziale enumerazione per asindeto. Alla teatralità della scena, per cui quasi possiamo vedere i duellanti quasi muoversi sul palcoscenico, si aggiunge l’effetto sonoro prodotto dalla velocità del ritmo, ottenuta attraverso l’iniziale enumerazione per asindeto, e dalla r allitterata, onde ci è dato quasi di sentire il cozzo delle armature e delle armi.

L’onta irrita lo sdegno a la vendetta,
e la vendetta poi l’onta rinova;
onde sempre al ferir, sempre a la fretta
stimol novo s’aggiunge e cagion nova.
D’or in or piú si mesce e piú ristretta
si fa la pugna, e spada oprar non giova:
dansi co’ pomi, e infelloniti e crudi
cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.

La velocità frenetica caratterizza pure questa ottava 56. La tensione crescente viene resa attraverso la figura retorica del chiasmo per la quale sono unite le parole «onta» e «vendetta» presenti sia al v. 1 sia al v. 2; e dalla parola «fretta» in clausola del v. 3 e gli aggettivi «novo» e «nova» del verso successivo. Il v. 5 ci mostra Tancredi e Clorinda combattenti ormai corpo a corpo, senza rispetto alcuno delle norme della cavalleria, pertanto «infelloniti». Il contatto corporale che dovrebbe essere, almeno da parte dell’innamorato Tancredi, un momento d’amore, per il capovolgimento operato dall’inconsapevolezza di ciò che veramente sta accadendo, viene ad essere uno spietato combattimento. 

Tre volte il cavalier la donna stringe
con le robuste braccia, ed altrettante
da que’ nodi tenaci ella si scinge,
nodi di fer nemico e non d’amante.
Tornano al ferro, e l’uno e l’altro il tinge
con molte piaghe; e stanco ed anelante
e questi e quegli al fin pur si ritira,
e dopo lungo faticar respira.

L’inconsapevolezza, l’incertezza, l’ignoranza della verità si traduce in una ambiguità di fondo di queste ottave. Nei primi 3 versi possiamo da un lato immaginarci una scena di due amanti impegnati in amorose schermaglie, in abbracci; tuttavia quei «nodi tenaci» del v. 3, che appunto gli abbracci per metafora significano, si palesano inevitabilmente come di «nemico», un nemico però che non lo sarebbe se sapesse chi ha di fronte. Lo scontro diventa incontro d’amore e viceversa. Un chiaro esempio di quel bifrontismo tassiano. 

L’un l’altro guarda, e del suo corpo essangue
su ‘l pomo de la spada appoggia il peso.
Già de l’ultima stella il raggio langue
al primo albor ch’è in oriente acceso.
Vede Tancredi in maggior copia il sangue
del suo nemico, e sé non tanto offeso.
Ne gode e superbisce. Oh nostra folle
mente ch’ogn’aura di fortuna estolle!

L’ambiguità bellico-amorosa – una ripresa tra l’altro del tema poetico della militia amoris, coltivata variamente da autori latini quali Tibullo, Properzio e Ovidio – prosegue nell’ottava 58 con un soffermarsi del Tasso sui reciproci sguardi e sui corpi stremati dei duellanti. Su quest’immagine il Tasso fa tramontare l’«ultima stella», il pianeta Venere. La notte si sta diradando, le prime luci dell’alba stanno per rischiarare la verità, la verità tragica. Gli enjambements che si ripetono di verso in verso, rallentano il ritmo ed accrescono la solennità, preparando, in un’atmosfera di crescente suspense, il gran disvelamento. L’ottava si conclude con Tancredi che gode nel vedere lo straziato avversario, che non sa però essere Clorinda. Questa falsa conoscenza del paladino cristiano dà modo al Tasso di chiudere l’ottava con una riflessione sulla superbia della ragione umana, che si estolle ben oltre il suo limite, dimentica della sua fragilità. Anche questa riflessione ha i suoi modelli classici: Virgilio di Eneide X, 501-2: «Nescia mens hominum fati sortisque futurae / et servare modum, rebus sublata secundis» [9]; Seneca de Le Troiane II, 305-6: «O tumide, rerum dum secundarum status / extollit animos; timide, cum increvit metus» [10]; e Silio Italico di Punica, II, 28: «Heu caecae mentes tumefactaque corda secundis!» [11].

Misero, di che godi? oh quanto mesti
fiano i trionfi ed infelice il vanto!
Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti)
di quel sangue ogni stilla un mar di pianto.
Cosí tacendo e rimirando, questi
sanguinosi guerrier cessaro alquanto.
Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse,
perché il suo nome a lui l’altro scoprisse:

L’ottava 59 si apre con un solenne apostrofe del poeta a Tancredi, che riprende le considerazioni dell’ottava successiva. La gravità delle parole del poeta è sottolineata anche in quest’ottava dal ritmo rallentato dagli enjambements. I vv. 1-4 sono una ripresa dell’analogo episodio di Bradamante e Ruggiero cantato dall’Ariosto in Orlando Furioso, XLV, 80. Qui l’autore si rivolge a Bradamante e le dice: 

O misera donzella, se costui 
tu conoscessi, a cui dar morte brami, 
se lo sapessi esser Ruggier, da cui 
de la tua vita pendono li stami; 
so ben ch’uccider te, prima che lui, 
vorresti; che di te so che più l’ami: 
e quando lui Ruggiero esser saprai,
di questi colpi ancor, so, ti dorrai.

Ariostesco è anche il motivo della richiesta supplichevole del nome [12]. Si noti come anche l’Ariosto venga dal Tasso incluso fra i classici, fra i grandi letterati, cui è necessario ispirarsi per fare grande letteratura. Questo al netto della disputa fra ariostisti e tassisti e dei suoi eccessi. Al v. 5 ritornano gli sguardi degli amanti-guerrieri. 

«Nostra sventura è ben che qui s’impieghi
tanto valor, dove silenzio il copra.
Ma poi che sorte rea vien che ci neghi
e lode e testimon degno de l’opra,
pregoti (se fra l’arme han loco i preghi)
che ‘l tuo nome e ‘l tuo stato a me tu scopra,
acciò ch’io sappia, o vinto o vincitore,
chi la mia morte o la vittoria onore».

L’ottava 59 si apre con un’altra spia dell’ambivalenza stilistica tassesca, con la parola «sventura», ripresa poi, al v. 3, da «sorte rea». Le due espressioni, non causalmente poste rispettivamente in posizione d’enfasi e a metà del verso, racchiudono tutta la tragedia di Tancredi che si lamenta che nessuno assista a quel sanguinoso duello, miseramente ignaro che colei cui vuol togliere la vita, è la donna che ama. La vera sventura, la versa sorte rea è quella per cui il paladino non riconosce Clorinda. 

Risponde la feroce: «Indarno chiedi
quel c’ho per uso di non far palese.
Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi
un di quei due che la gran torre accese».
Arse di sdegno a quel parlar Tancredi,
e: «In mal punto il dicesti»; indi riprese
«il tuo dir e ‘l tacer di par m’alletta,
barbaro discortese, a la vendetta».

Clorinda ci appare grandiosamente nell’ottava 61 e ci appare caratterizzata come «la feroce». Ella non ha alcun tratto femminile. In luogo della muliebre dolcezza non ha nemmeno una fortezza da matrona, bensì la brutalità delle belve, ossia la ferocia. Ciò è sottolineato anche da come Tancredi le si rivolge, chiamandola (sebbene lui la creda un guerriero maschio): «barbaro discortese».

Torna l’ira ne’ cori, e li trasporta,
benché debili in guerra. Oh fera pugna,
u’ l’arte in bando, u’ già la forza è morta,
ove, in vece, d’entrambi il furor pugna!
Oh che sanguigna e spaziosa porta
fa l’una e l’altra spada, ovunque giugna,
ne l’arme e ne le carni! e se la vita
non esce, sdegno tienla al petto unita.

Qual l’alto Egeo, perché Aquilone o Noto
cessi, che tutto prima il volse e scosse,
non s’accheta ei però, ma ‘l suono e ‘l moto
ritien de l’onde anco agitate e grosse,
tal, se ben manca in lor co ‘l sangue vòto
quel vigor che le braccia a i colpi mosse,
serbano ancor l’impeto primo, e vanno
da quel sospinti a giunger danno a danno.

In queste ottave 62 e 63 abbiamo la ripresa dello scontro,  con un sottolineare della ferocia estrema dei due, i quali pur ferendosi mortalmente a vicenda, non muoiono perché l’odio dell’uno verso l’altro li mantiene vivi: impedisce all’anima di uscire dal corpo. La similitudine marina, cavata da Ovidio, Fasti, II, 775-6, evocatrice di morte, in ragione della proverbiale pericolosità del mare, funge da vestibolo introduttivo al progredire della scena. 

Ma ecco omai l’ora fatale è giunta
che ‘l viver di Clorinda al suo fin deve.
Spinge egli il ferro nel bel sen di punta
che vi s’immerge e ‘l sangue avido beve;
e la veste, che d’or vago trapunta
le mammelle stringea tenera e leve,
l’empie d’un caldo fiume. Ella già sente
morirsi, e ‘l piè le manca egro e languente.

Siamo al momento culminante dello scontro. Tancredi trafigge a morte Clorinda. L’importanza del momento è dato anche dal modello: nella tassesca Clorinda rivive la vergiliana Camilla, la cui morte, per una ferita sotto la nuda mammella, viene descritta in Eneide XI, 803-4 [13]. Un altro modello è sicuramente l’uccisione di Nicandra da parte di Turrismundo all’interno de L’Italia liberata da’ Gotthi del Trissino [14], da cui il Tasso prende ispirazione per tutte queste ottave che parlano della morte di Clorinda. Subito, già dal v. 2, noi notiamo una trasformazione del personaggio di Clorinda. La femminilità negata, repressa, rinchiusa nell’armatura emerge con forza nel momento in cui Tancredi le dà la ferita esiziale. Tasso quindi ci parla del «bel seno», delle «mammelle», simboli patenti della femminilità. Chiaramente modellati su precisi versi dell’Eneide sono i versi dal 5 al 7 [15]. Il v. 7 ci apre una finestra sull’interiorità di Clorinda: il Tasso, discepolo di Virgilio e della sua epica “del sentimento”, secondo la definizione di un illustre maestro degli studi classici come Gian Biagio Conte, non ci mostra tanto la morente, ma la consapevolezza da parte della stessa di essere sul limitar della morte. Prima di passare all’ottava successiva mi piace rilevare come dall’immagine del fiume di sangue che scorre dal petto ferito di Clorinda si possa suggestivamente riandare ad un altro petto ferito: il costato di Gesù Cristo aperto dalla lancia. Da quell’apertura, conforme l’oculare testimonianza di Giovanni, scaturirono acqua e sangue. Commenta san Tommaso: «Dal lato di Cristo sgorgano l’acqua, simbolo di spirituale abluzione, e il sangue, simbolo di redenzione. Perciò il sangue ben si addice al sacramento dell’Eucaristia; l’acqua, invece, al sacramento del Battesimo, che però mutua la sua virtù abluente dalla virtù del sangue di Cristo» [16]. Una velata anticipazione  delle scene successive? Mi piace pensarlo.

Segue egli la vittoria, e la trafitta
vergine minacciando incalza e preme.
Ella, mentre cadea, la voce afflitta
movendo, disse le parole estreme;
parole ch’a lei novo un spirto ditta,
spirto di fé, di carità, di speme:
virtú ch’or Dio le infonde, e se rubella
in vita fu, la vuole in morte ancella.

Al ricupero del corpo, nell’ottava 65, fa seguito il ricupero dell’anima. In un crescendo di pathos, creato con una catena di enjambements, avviene la trasformazione più importante. Clorinda, atterrata dalla spada di Tancredi, si apre al richiamo della divina grazia e accetta di essere sollevata da quello stato di peccato, proprio di chi è lontano da Gesù Cristo e dalla Chiesa. Così la «feroce» dell’ottava 59 diventa prima «trafitta / vergine», quasi assumendo le sembianze di una tenera martire dei primi secoli, recisa come un giglio dal fuore del persecutore; poi e «ancella» del vero Dio. Questa “transustanziazione” del personaggio di Clorinda, quindi questa mutazione ontologica dell’anima sua per via dell’accettazione della vera fede e dell’amministrazione del battesimo, viene sottolineata retoricamente  attraverso il posizionamento in enfasi del termine «vergine» e del posizionamente in clausola dei termini «trafitta» e «ancella». Ricca di suggestioni è l’immagine dei vv. 3-4 e seguenti, che mi piace mettere a contatto con una fatidica caduta ben più importante, quella di Saulo sulla via di Damasco. In questo contesto di ribaltamento generale, assume valenza vitale quella parola – «vittoria» –  che è posta nel mezzo dell’incipit all’ottava. Se a Tancredi «vittoria» si applica per antifrasi, ossia per il suo contrario, sottolineando il tragico destino che si sta per abbattere e che sta per abbattere il paladino; per Clorinda, umanamente sconfitta, ma ormai cristiana, essa si applica nel suo significato più metafisico, più vero, secondo l’affermazione di Giovanni: «Haec est victoria quae vincit mundum: fides nostra» [17].

«Amico, hai vinto: io ti perdon … perdona
tu ancora, al corpo no, che nulla pave,
a l’alma sí; deh! per lei prega, e dona
battesmo a me ch’ogni mia colpa lave».
In queste voci languide risuona
un non so che di flebile e soave
ch’al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza,
e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza.

L’ottava 66 si apre con le parole di Clorinda che ormai è unita, se non al corpo, all’anima della Chiesa. Chiama infatti Tancredi «amico», di quella amicizia che «est … nihil aliud nisi omnium divinarum humanarumque rerum cum benevolentia et caritate consensio» [18], secondo la classica definizione di Cicerone che possiamo tranquillamente usare anche in senso cristiano. In virtù di questa comunanza la moribonda chiede il perdono e chiede qualcosa per l’anima, ben considerando che il corpo ormai è destinato alla polvere, mentre l’anima, immortale di sua natura, è destinata a un’eternità o di felicità o di tormento. E pertanto chiede il battesimo per essere mondata da ogni colpa e ottenere la salvezza. I vv. 5-7 continuano la trasformazione del personaggio di Clorinda: il ricupero della femminilità. Al v. 8 il verbo «lagrimar» è un’altra spia dell’epica dei sentimenti. Gli eroi addolorati, gli eroi che piangono, che hanno in Enea e nelle sue fatiche il prototipo, rivivono nell’epica tassesca e riflettono la stessa personalità del loro autore con il carico della sua stessa sofferta vita. Il tema del pianto tornerà nell’ultimo Tasso, del Tasso sempre più studioso dei Padri della Chiesa, del Tasso de Le lacrime di Maria Vergine e de Le lacrime di Gesù Cristo, due poemetti in ottave del 1592. 

Poco quindi lontan nel sen del monte
scaturia mormorando un picciol rio.
Egli v’accorse e l’elmo empié nel fonte,
e tornò mesto al grande ufficio e pio.
Tremar sentí la man, mentre la fronte
non conosciuta ancor sciolse e scoprio.
La vide, la conobbe, e restò senza
e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!

Tancredi va a riempir d’acqua il suo elmo per officiare il battesimo del suo ignoto avversario moribondo, il che è espresso attraverso una perifrasi al v. 4. Segue il momento dell’agnizione. Il pathos è all’acme. Il tema della conoscenza, tipico della tragedia classica, si manifesta in tutta la sua forza. Il paladino, nell’atto di liberare dall’elmo il capo del battezzando, riconosce alfine veramente chi ha di fronte e chi ha ucciso: è la sua amata Clorinda. Il contrasto fra la conoscenza e l’ignoranza, che conferisce pathos alla scena in virtù la sua ambiguità, è reso attraverso l’opposizione fra il «non conosciuta» del v. 6 e il «conobbe» del v. 7; e ancora attraverso il passaggio dall’asindeto, che accelera il ritmo del v. 7, al polisindeto che apre il v. 8. Gli stessi versi ci mostrano il susseguirsi della causa (la vista) e dell’effetto (la conoscenza) e i sentimenti dolorosi che esso effetto provoca, espressi da quell’esclamazione «ahi» reiterata.

Non morí già, ché sue virtuti accolse
tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse
vita con l’acqua a chi co ‘l ferro uccise.
Mentre egli il suon de’ sacri detti sciolse,
colei di gioia trasmutossi, e rise;
e in atto di morir lieto e vivace,
dir parea: «S’apre il cielo; io vado in pace».

È arrivato il momento del battesimo di Clorinda. Mentre Tancredi è moribondo nell’anima per via della consapevolezza di aver ucciso l’amata, questa amata riceve la vita per mezzo dell’acqua lustrale. L’immagine è accompagnata da quel procedimento tipo del Tasso che è il concettismo, ossia quella tecnica retorica che consiste nel mettere insieme concetti contrastanti, al fine di rimarcare il messaggio che si vuol trasmettere e di stupire il lettore. Felicissimo uso qui ne fa il poeta nel sottolineare come Clorinda lasci la vita terrena per entrare, in virtù della figliolanza divina acquisita per mezzo del battesimo, nella vita eterna. Il contrasto dirompente continua con la gioia che caratterizza la morente eroina, la quale ci ricorda il protomartire Stefano che prima di essere travolto dalla spietata folla ebraica «pieno essendo di Spirito Santo, fisso mirando il cielo, vide la gloria di Dio, e Gesù stante alla destra di Dio. E disse: Ecco che io veggo aperti i cieli, e il Figliuolo dell’Uomo stante alla destra di Dio» [19]. 

D’un bel pallore ha il bianco volto asperso,
come a’ gigli sarian miste viole,
e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso
sembra per la pietate il cielo e ‘l sole;
e la man nuda e fredda alzando verso
il cavaliero in vece di parole
gli dà pegno di pace. In questa forma
passa la bella donna, e par che dorma.

E in quest’atto di fissare il cielo la trasmutazione della donna avviene in modo pieno, non solo quanto alla sua anima, mondata dal peccato originale, ma anche quanto al suo corpo. Infatti il pallore e l’ombra violacea dell’imminente morte vengono ad assumere tratti di bellezza, espressi con l’immagine del giglio, simbolo di purezza, e delle viole, quelle “pallentis violae” cantate già da Virgilio nella seconda Bucolica. E così il corpo di Clorinda, nascosto nella sua femminilità dall’armatura e dalla ferocia disumana, riacquista la sua libera espressione nel momento in cui “l’alma gentil” (ott. 70) l’abbandona, se ne distacca violentemente e lo lascia al suo tornarsene in polvere. Come spiegare nei suoi alti principi questo contrasto? Come spiegare come da un lato vi sia il trionfo dello spirito e dall’altra il trionfo della materia? Mi pare che la spiegazione possa essere racchiusa nella meditazione di un passo del grande Tertulliano, il quale nel suo De resurrectione carnis ci ha lasciata un’espressione magnifica: «Caro salutis est cardo» [20]. Una espressione che ci spiega come non vi sia in realtà un contrasto insanabile. Il corpo, la carne, di Clorinda, con i caratteri della sua femminilità, con la sua bellezza, emergono nel momento in cui l’anima vola verso quella salvezza che può da noi essere fruita grazie al fatto che «il Verbo s’è fatto carne», ha assunto la natura umana dalla Vergine e ha patito nel suo corpo l’atroce passione redentrice. La natura umana, il corpo umano, la materia cui l’anima (forma) si unisce in sinolo, ha una sua nobiltà: nobiltà d’origine e nobiltà di fine. Dio ha creata la materia e l’ha creata buona, e a questo progetto di bontà deve corrispondere il nostro corpo, tempio dello Spirito Santo, destinato, come premio di un buon agire, alla resurrezione finale.  Tale pensiero, che il pensiero cardine della Rivelazione cristiana, che in Tasso, studioso attentissimo a un tempo dei Padri della Chiesa e dei maestri della classicità, trova eminente espressione letteraria, ci è e ci sia guida nella comprensione del vero valore dell’anima e del corpo umano, della sua dignità, della sua bellezza.  
   
NOTAS
[1]  «Se tu vedessi il Romano Pontefice celebrare o assistere ai divini misteri, ti convincerai senza dubbio non esservi ordine, splendore e magnificenza se non presso il Romano Pontefice … e certamente dirai che la Curia Romana sia ad immagine della gerarchia celeste, dove tutte le cose sono sì ordinate e stabilite in modo talmente preciso che quegli uomini perbene che le guardano, non possono fare altro se non lodarle». Cfr. anche G. MORONI, Le cappelle pontificie, cardinalizie e prelatizie, Venezia, 1841, pp. XIV-XV.
[2] A questo proposito è opportuno richiamare un pensiero della poetessa Cristina Campo, benemerito della religione cattolica nella seconda metà del secolo scorso: «La Bellezza … è teologica; sì, è una virtù teologale, la quarta, la segreta, quella che fluisce dall’una all’altra delle tre palesi. Ciò è evidente nel rito, appunto, dove Fede, Speranza e Carità sono ininterrottamente intessute e significate dalla Bellezza» Cfr. «L’Europa», 15 febbraio 1975, p. 30, ora in C. CAMPO, Sotto falso nome, a cura di M. FARNETTI, II ed., Milano, Adelphi, 1998, pp. 212-215.
[3] Un riferimento a quest’anno preciso lo abbiamo in Gerusalemme Liberata XI, 8: «te che sei pietra e sostegno / de la magion di Dio fondato e forte, / ove ora il novo successor tuo degno / di grazia e di perdono apre le porte», quando il Tasso evoca il Giubileo bandito nel 1575 da Gregorio XIII. Egli nell’occasione di recò a Roma come pellegrino per lucrare l’indulgenza, ma anche per sottoporre di persona la sua opera alla commissione di revisione. Il poeta visiterà spesso la Città Eterna soprattutto per cercare di ottenere l’accesso alla corte papale, come poeta, sebbene questa sua speranza non troverà mai appagamento, se non negli ultimi anni di vita, al tempo di Clemente VIII. Riferendosi ad una udienza non concessagli da Sisto V, il Tasso scrive a monsignor Datario: «S’è lecito di scrivere il vero a chi non piace la bugia, il mio picciol merito non mi poteva togliere questa speranza, parendomi, ch’essendo il papa in terra Vicario di Cristo, e quasi viva Immagine d’Iddio, le sue grazie dovessero prevenire i nostri meriti, come fanno le divine». L’Ariosto era stato poeta alla corte di Leone X, “aevi Augustalis instaurator” secondo l’espressione di Leone XIII, ma dalla corte tentò sempre in ogni modo di evadere; al contrario il Tasso tese, anelò costantemente alla corte come luogo ideale per espletare la sua arte poetica. 
[4] F. DE SANCTIS, Storia della Letteratura Italiana, Edizione IV a cura di Benedetto Croce, Vol. II, Laterza, Bari, 1949, p. 160.
[5] «Ma come, prima che armi nemiche lo colgano, / presto, per gli altri monti, fuor d’ogni strada, s’intana / un lupo, che ha ucciso un pastore o un grosso giovenco, / del grave fatto ben conscio; e sotto il ventre la coda tremante acquatta e già è nascosto tra i boschi» (trad. Calzecchi Onesti). L’immagine vergiliana ha il suo modello in Iliade XV, 585-9, dove Omero parla descrive la fuga di Antiloco, figlio di Nestore, davanti ad Ettore: «’Αντίλοχος δ’ ου μεῖνε θοός περ εων πολεμιστής, / αλλ’ ὅ γ’ ἄρ’ ἔτρεσε θηρὶ κακὸν ρέξαντι ἐoικώς, / ὅς τε κύνα κτείνας ἤ βουκόλον ἀμφὶ βόεσσι / φεύγει πρίν περ ὅμιλον ἀολλισθήμεναι ανδρών· / ὣσ τρέσε Νεστορίδησ» [«Non lo aspettò Antiloco, per quanto prode guerriero; / tremava come una fiera che ha fatto qualcosa di male, / ucciso i cani o il bovaro accanto alla mandria, / e fugge prima che si raduni la folla degli uomini / Così fuggi il figlio di Nestore» (trad. G. Paduano]. Infine i versi tassiani sono modello al Monti nella sua versione del poema omerico (XV, 737-744): «Non ardì l’altro, benchè pro’ guerriero, / Aspettarne lo scontro, e si fuggío / Siccome lupo misfattor, che ucciso / Presso l’armento il cane od il bifolco, / Si rinselva fuggendo anzi che densa / Lo circuisca de’ villan la turba; / Così diè volta sbigottito il figlio / Di Nestore per mezzo alle saette».
[6]  «tradit equum comiti paribusque resistit in armis / ense pedes nudo puraque interrita parma» [«alle compagne affida il cavallo, con armi pari è già pronta, / a piedi, nuda la spada, col bianco scudo, imperterrita» (trad. Calzecchi Onesti)].
[7] «Mugitus veluti cum prima in proelia taurus / terrificos ciet aut irasci in cornua temptat / arboris obnixus trunco, uentosque lacessit / ictibus aut sparsa ad pugnam proludit harena» [«Così, movendo a lotta, lancia il toro muggiti / terribili e prova all’ira le corna, ostinato, / contro il tronco d’un albero, o sfida con calci il vento / e tra una pioggia di sabbia alla battaglia si esercita» (trad. Calzecchi Onesti)].
[8]  «I collegi dei Padri Gesuiti, sorti rapidamente nelle principali città, divennero i nuovi centri di cultura, d’arte, di teatro […] Il primo tragico della seconda metà del ‘500, quello in cui più direttamente si riflettono le idee culturali e morali della Riforma Cattolica, è il Padre Stefano Tuccio […] L’educazione impartita agli alunni di questi collegi (alunni provenienti in massima parte da famiglie aristocratiche o dell’alta borghesia) era fondata, oltre che sul pensiero teologico cattolico, su alcune materie classiche che diverranno tradizionali nella successiva cultura europea, materie inquadrate secondo un ordinamento fissato dalla Ratio studiorum. Questo codice scolastico e pedagogico della Compagnia di Gesù, redatto una prima volta nel 1586, successivamente ampliato nel 1598, era il risultato di cinquant’anni di insegnamento in Europa, e alla sua elaborazione avevano collaborato gli uomini più insigni dell’Ordine, dal Bellarmino al Suárez, dal Benci all’Azor, dal Tursellini al Tuccio […] Gli alunni venivano stimolati allo studio più che con severe regole disciplinari, mediante gare, esercitazioni, composizioni, dispute, declamazioni, accademie e rappresentazioni. Così l’attività teatrale nei collegi sorse naturalmente come mezzo di formazione integrale degli allievi, da ottenersi mediante una messa in scena di argomenti positivi […] Dalla scuola teatrale dei Padri nasceva negli anni seguenti la grande tragedia europea dell’età barocca» (F. DOGLIO, Il teatro tragico italiano, Ugo Gunda Editore, Parma, 1972, pp. LVI-LXXII).
[9] «O ignara del fato mente umana, e della sorte a venire, / e di serbar la misura, quando il successo l’esalta» (trad. Calzecchi Onesti).
[10]  «Superbo, mentre la situazione propizia / esalta gli animi; timido mentre assale il terrore».
[11]  «O menti cieche e cuori insuperbiti per il successo!».
[12] Cfr. Orlando Fuorioso, XXXV, 75, 3-4: «Disse la donna: “Se saper mi lece, / ditemi in cortesia chi siate voi”». Cfr. anche Luigi Pulci, Morgante, XXII, 183, 5: «Dimmi baron, come tuo nome suona».
[13]  «Hasta sub exertam donec perlata papillam / haesit virgineumque alte bibit acta cruorem» [Finché l’asta, venuta sotto la nuda mammella, s’infisse e fonda entrò (trad. Calzecchi Onesti)]. 
[14] Gian Giorgio Trissino compose questo poema epico in endecasillabi sciolti al tempo di Leone X (1513-1521), ma lo pubblicò fra il 1547 e il 1548. Fortemente caratterizzato da una ripresa fedelissima del modello classico (fino ad Omero) e da un’aderenza stretta alle regole della Poetica di Aristotele, vuole contrapporsi al romanzo cavalleresco quale lo concepì l’Ariosto.
[15] Cfr. Aen., X, 817-9: «Transit … / et tunicam, molli mater quam neverat auro, / inplevitque sinum sanguis» [(trad. Calzecchi Onesti)]; e IX, 414: «Volvitur ille, vomens calidum de pectore flumen» [(trad. Calzecchi Onesti)].
[16]  Sum. Theol., III, q. 66, a. 3 ad 3m.
[17] 1 Ioann.,V, 3.
[18] «L’amicizia non è se non l’incontro perfetto di tutti i motivi umani e religiosi, realizzato con la benevolenza e con l’amore» (Laelius seu De amicitia, VI).
[19]  Act. App. VII, 55.
[20]  Tert., De resurrectione carnis, VIII; Migne, PL 2, 806.

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