Traducción de la conferencia dada por Giuliano Zoroddu en el marco de la lección especial del Seminario de Estudios Tomísticos de la Sociedad Internacional Santo Tomás de Aquino - Sección de Cerdeña, el 21 de Mayo de 2022, y publicada en RADIO SPADA. Textos bíblicos tomados de la versión de Mons. Félix Torres Amat; traducción de la Divina Comedia por Luis Martínez de Merlo.
«Para conseguir virtud y ciencia». INTELIGENCIA, VOLUNTAD Y LIBERTAD DEL ALMA EN EL CANTO XXVI DEL Infierno DE DANTE
Quando la dottoressa Dolce mi ha porto
l’invito a partecipare a questa lezione speciale e mi ha esposta la
tematica cui avrei dovuto collegarmi, il mio pensiero è corso a due
fondamentali momenti della produzione letteraria italiana da me trattati
nel corso di questo anno scolastico che ormai volge al termine.
Il primo è il canto XII della Gerusalemme Liberata
del Tasso, dove il poeta in un susseguirsi di sublimi versi mette in
scena il tema spiccatamente tragico della conoscenza e nel contesto di
un apparente contrasto fra corpo e anima canta del battesimo e della
morte della guerriera pagana Clorinda.
Il secondo è il XXVI canto dell’Inferno di Dante, il canto di Ulisse, l’eroe della conoscenza che invita i suoi a «conseguir virtud y ciencia».
Quest’ultimo ci è parso più attinente al tema. E a ragione.
Volentieri
quindi dopo aver trattato l’anno scorso delle alture mistiche del
XXXIII canto del Paradiso, vero e proprio poema di Maria Mediatrice di
tutte le grazie, scendo –e voi con me– nelle bassure del primo regno «donde … gritando todas la segunda muerte» [1].
Diamo
alcune coordinate spazio-temporali. Dante, perduto nella selva oscura,
allegoria del traviamento intellettuale e morale, soccorso da Virgilio,
inizia il suo viaggio ultraterreno. Siamo nel Venerdì Santo dell’anno
1300, primo anno giubilare della storia.
Il canto che andiamo a
trattare si situa nell’ottavo cerchio del cono rovesciato che
costituisce l’inferno ed esattamente all’interno dell’ottava bolgia, la
bolgia dei consiglieri fraudolenti.
Il canto si apre con una
invettiva contro Firenze (vv. 1-12), quindi passa alla descrizione del
malagevole cammino compiuto (13-24), e infine, con la premessa di una
suggestiva similitudine pastorale (vv. 25-30), passa alla descrizione
dell’ambiente (31-33):
Cuantas el campesino que descansa en la colina,
cuando aquel que alumbra el mundo,
oculto menos tiene el rostro,
cuando a las moscas siguen los mosquitos,
luciérnagas contempla allá en el valle,
en el lugar tal vez que ara y vendimia;
toda resplandecía en llamaradas
la bolsa octava, tal como advirtiera
desde el sitio en que el fondo se veía. [2]
E queste fiammelle si spostano per la valle infernale.
Il loro
spostamento viene, attraverso una similitudine antitetica, paragonato
alla salita del profeta Elia in cielo sul carro di fuoco (vv. 34-42).
Un paragone, come vedremo, non casuale nell’ottica del senso allegorico e “catechetico” del canto.
Y como aquel que se vengó con osos,
vio de Elías el carro al remontarse,
y erguidos los caballos a los cielos,
que con los ojos seguir no podía,
ni alguna cosa ver salvo la llama,
como una nubecilla que subiese;
tal se mueven aquéllas por la boca
del foso, mas ninguna enseña el hurto,
y encierra un pecador cada centella [3]
Tal vista rapisce e sconvolge
intimamente il pellegrino (vv. 43-45), che viene però tosto richiamato
all’attenzione dalla guida Virgilio, la quale gli spiega cosa siano
quelle fiammelle.
«Dentro del fuego están las almas,
todas se ocultan en donde se queman» [4]
Quelle fiammelle sono la prigione
eterna dei consiglieri fraudolenti, ossia coloro che hanno utilizzato il
loro ingegno, il loro talento, in questo caso la loro capacità
oratoria, per indurre a commettere il male.
Le loro anime sono
nascoste dalla fiamma in contrappasso dell’aver essi operato
nascostamente e dell’aver infiammato i cuori altrui a peccare.
Tra
tutte le fiamme, Dante ne nota una assai particolare: una fiamma la cui
punta forma due corni di differente grandezza (vv.49-54).
Questa
biforcazione della fiamma è sottolineata da un richiamo al mito di
Eteocle e Polinice. La domanda di Dante è infatti la seguente:
¿quién viene en aquel fuego dividido,
que parece surgido de la pira
donde Eteocles fue puesto con su hermano? [5]
Non si tratta di uno sfoggio di
erudizione, ma di una preparazione all’ingresso di due altri personaggi
del mito greco, quali quelli di cui parla Virgilio nella sua risposta
(vv. 55-63).
«Allí dentro se tortura
a Ulises y a Diomedes, y así juntos
en la venganza van como en la ira;
y dentro de su llama se lamenta
del caballo el ardid, que abrió la puerta
que fue gentil semilla a los romanos.
Se llora la traición por la que, muerta,
aún Daidamia se duele por Aquiles,
y por el Paladión se halla el castigo». [6]
La guida di Dante espone tutte le
colpe per cui i due sono dannati: primo l’inganno del cavallo di Troia;
secondo l’aver condotto in guerra, quindi alla morte, Achille,
strappandolo, come racconta Stazio nella sua Achilleide, all’amore di
Deidamia; terzo il furto del Palladio, ossia la statua di Pallade Atena,
in cui consisteva la salvezza della città di Troia.
A questo punto Dante è curiosissimo di parlare con queste due anime e ne fa esplicita e accorata preghiera – «pídote, maestro / y te suplico» – a Virgilio (vv. 64-69), il quale acconsente ad esaudirla a patto che sia lui a parlare con quei due spiriti (vv. 70-78).
Segue
la solenne supplica del poeta latino (vv. 79-84) che chiede a uno dei
due spiriti avvolti dal fuoco di rivelare «dónde, por él perdido, halló la muerte», ossia dove, perdendosi, andò a morire.
Quindi iniziano le terzine più famose del canto: l’introduzione di Ulisse (vv. 85-90) e il suo discorso (vv. 90-142).
El mayor cuerno de la antigua llama
empezó a retorcerse murmurando,
tal como aquella que el viento fatiga;
luego la punta aquí y acá moviendo,
cual si fuese una lengua la que hablara,
fuera sacó la voz, y dijo … [7]
Notiamo anzitutto che lo spirito che
si fa avanti ad esaudire la richiesta di Dante, è caratterizzato da una
particolare autorevolezza, anticipata al v. 55 da quell’impersonale si
martira che quasi sembra annullare in Ulisse la figura di Diomede e ai
vv. 84-85 dal passaggio nella supplica di Virgilio dal voi
dell’apostrofe iniziale (v. 79) ad un di voi.
Soffermiamoci poi sul
v. 89. La fiamma che racchiude il dannato Ulisse è una lingua di fuoco,
una lingua di fuoco che parla. Il verso si innesta su un’immagine ben
precisa, tratta dall’epistola cattolica di san Giacomo Minore che
parlando della lingua dice:
«Así también la lengua es un miembro pequeño, sí, pero viene a ser origen fastuoso de cosas de gran bulto o consecuencia. ¡Mirad un poco de fuego cuán gran bosque incendia! La lengua también es un fuego, es un mundo entero de maldad. La lengua es uno de nuestros miembros, que contamina todo el cuerpo, y siendo inflamada del fuego infernal inflama la rueda, o toda la carrera, de nuestra vida». [8]
Il che
si contrappone ad un’altra immagine, sicuramente presente nella mente
del poeta: l’immagine della discesa dello Spirito Santo, quale la
racconta san Luca negli Atti degli Apostoli:
«Al mismo tiempo vieron aparecer unas como lenguas de fuego, que se repartieron y se asentaron sobre cada uno de ellos. 4 Entonces fueron llenados todos del Espíritu Santo, y comenzaron a hablar en diversas lenguas las palabras que el Espíritu Santo ponía en su boca […] las maravillas de Dios». [9]
Vediamo già delinearsi il tema del
canto: l’abuso dei doni che Dio Creatore ha fatto all’uomo. Si inizia
dai doni “materiali”, dal corpo, da un organo: la lingua. Così come la
lingua si sciolse a proclamare la grandezza di Dio, ad annunziare Gesù,
verità salvatrice, ai Giudei e ai pagani; allo stesso modo può indurre
al peccato, alla rovina.
Ulisse che è un consigliere fraudolento rientra in quest’ultima categoria, la rappresenta anzi in tutta la sua tragicità.
Una volta introdotto, Dante fa parlare il suo personaggio.
«Cuandome separé de Circe, que sustrajóme
más de un año allí junto a Gaeta,
antes de que así Eneas la llamase,
ni la filial dulzura, ni el cariño
del viejo padre, ni el amor debido,
que debiera alegrar a Penélope,
vencer pudieron el ardor interno
que tuve yo de conocer el mundo,
y el vicio y la virtud de los humanos;
mas me arrojé al profundo mar abierto,
con un leño tan sólo, y la pequeña
tripulación que nunca me dejaba. [10]
Ulisse inizia il racconto del suo ultimo viaggio.
In
queste terzine (vv. 90-102), fondate su precisi riferimenti a passi di
autori latini [11], Ulisse appare anzitutto come l’eroe della
conoscenza, della conoscenza “sperimentale”, tale quale ce l’ha
tramandata il poema omerico dedicatogli; ma appare anche l’immagine di
un eroe “individualista” e “spietato”.
Questo lo capiamo dalla menzione di un altro eroe classico: Enea.
Se
Ulisse intraprende un viaggio sacrificando a questo suo desiderio
ardente di conoscere il mondo la famiglia, i legami affetti più forti
dell’essere umano; Enea, mettendosi in viaggio per sfuggire alla
distruzione di Troia e alla morte, porta con sé, salvadoli, suo padre
Anchise e suo figlio Ascanio e ricerca affannosamente l’amata moglie
Creusa, la quale però non era destinata a salvarsi.
Se Ulisse
intraprende il viaggio mosso unicamente da un un fine personale, da una
curiosità egoistica; Enea lo intraprende per il fatale compito di
gettare il seme di quella stirpe che poi avrebbe fondato Roma,
preordinata sede dell’impero e del papato.
Da un lato la píetas –la
devozione agli dei, alla famiglia, alla patria– e una missione sacra;
dall’altro l’individualismo che passa sopra a tutto pur di raggiungere
l’appagamento dei propri desideri.
Questa preponderanza della volontà
di Ulisse sugli affetti familiari e più ancora sul fine della sua
missione, al di là della pretta soddisfazione di se stesso, è
sottolineata retoricamente nel passo «ma misi me» caratterizzato dalla
triplice allitterazione [en el original italiano, N. del T.] della m, funzionale a mettere in evidenza come
l’uomo, l’intelligente Odisseo, scelga in piena coscienza di fare il
viaggio, deliberatamente facendo prevalere i suoi interessi, i suoi
desideri sui doveri amorosi verso i suoi prossimi e condannando al
triste destino pure i fedeli compagni.
Il canto prosegue con la
descrizione del viaggio e dell’attraversamento dello stretto di Gibraltar, le famose Colonne d’Ercole (vv. 103-111).
Un litoral y el otro vi hasta España,
y Marruecos, y la isla de los sardos,
y las otras que aquel mar baña en torno.
Viejos y tardos ya nos encontrábamos,
al arribar a aquella boca estrecha
donde Hércules plantara sus columnas,
para que el hombre más allá no fuera:
a mano diestra ya dejé Sevilla,
y la otra mano se quedaba Ceuta. [12]
Tralasciando le indicazioni
geografiche, che pure hanno il loro valore e che sono state finemente
scandagliate dai commentatori [13], concentriamoci prima sul v. 106,
quindi, in maniera ancor più attenta, sui vv. 108-109.
Anzitutto è
bene considerare il particolare dell’anzianità di Ulisse e dei compagni.
La notazione, versione in volgare di un verso delle Metamorfosi di
Ovidio [14], intende non solo affermare come quell’età che oggi
chiamiamo terza dovrebbe astenersi dalle avventure ed accontentarsi di
quello che già si ha; ma soprattutto introdurre il tema della misura,
del limite, proprio dei versi successivi.
I limiti posti da Ercole e
violati da Ulisse, richiamano con tutta chiarezza quel limite posto da
Dio ad Adamo ed Eva da Dio nel giardino dell’Eden. Corrispondono
interamente e tal corrispondenza ci è rivelata dalle parole impiegate
dallo stesso Adamo per descrivere a Dante il peccato originale nel XXVI
del Paradiso: «Ahora, hijo mío, no el probar del árbol / fue en sí misma ocasión de tanto exilio, / mas sólo el que infringiese lo ordenado» [15].
Ulisse
viene quindi, in virtù di questa linea che lo collega retoricamente ad
Adamo, a simboleggiare l’uomo autonomo, l’uomo indipendente. Come Adamo
infatti che non rispettò quel comando impartitogli dal Creatore: «Come, si quieres, del fruto de todos los árboles del paraíso; mas del fruto del árbol de la ciencia del bien y del mal, no comas: porque en cualquier día que comieres de él, infaliblemente morirás» [16], per manifestargli la sua
dipendenza creaturale; così Ulisse, allo stesso modo, si spinge oltre i
confini: i confini della sua condizione umana.
Riprenderemo in
seguito queste considerazioni, seguitando ora con la lettura e il
commento delle terzine in cui si trova la cosiddetta breve arenga (vv. 112-126).
«Oh hermanos –dije–, que tras de cien mil
peligros a occidente habéis llegado,
ahora que ya es tan breve la vigilia
de los pocos sentidos que aún nos quedan,
negaros no queráis a la experiencia,
siguiendo al sol, del mundo inhabitado.
Considerar cuál es vuestra progenie:
hechos no estáis a vivir como brutos,
mas para conseguir virtud y ciencia».
A mis hombres les hice tan ansiosos
del camino con esta breve arenga,
que no hubiera podido detenerlos;
y vuelta nuestra proa a la mañana,
alas locas hicimos de los remos,
inclinándose siempre hacia la izquierda. [17]
Nella prima terzina, nodo cruciale di
tutto il canto, Ulisse richiama l’alta dignità umana, creata razionale,
intelligente e con una volontà volta al bene. Dante, riprende qui un
passo del Convivio in cui affermava: «vivir en los animales es sentir – animales brutos, digo–, y vivir en el hombre es usar de razón»
[18], onde si può ricavare che non vive l’uomo che non vive secondo
ragione. Questo passo del Convivio che fa eco all’insegnamento di
Aristotele sull’anima vegetativa, sensitiva ed intellettiva, rievoca un
passo del Genesi molto importante.
Nel capitolo secondo leggiamo: «Formó, pues, el Señor Dios al hombre del lodo de la tierra, y le inspiró en el rostro un soplo o espíritu de vida, y quedó hecho el hombre viviente con alma racional» [19].
Tutta
la dignità dell’uomo sta in quel particolare soffio di vita che lo
rende persona viva, che lo rende, per dirla con Severino Boezio, «natúrae rationális indivídua substántia» [20], sostanza individuale di natura razionale.
L’uomo è uomo, distinto dagli altri animali, posto in summo rerum vértice,
per essere stato creato ad immagine e somiglianza della Santissima
Trinità, consistendo questa somiglianza principalmente in questo: che
l’uomo ha un’anima spirituale e immortale dotata d’intelletto e di
volontà, e quindi capace di conoscere e di amare Dio [21].
Ma questi
doni di Dio sono in Ulisse oggetto del medesimo abuso di cui abbiamo
parlato a riguardo della lingua. Infatti il passaggio delle Colonne
d’Ercole, qui definito attraverso la metafora del volo (che richiama il
temerario Icaro), è folle, è contrario alla ragione, contrario a quella
ragione che ci fa essere uomini e non bestie, contrario al fine per cui
l’uomo è stato creato.
In ciò consiste il consiglio fraudolento di
Ulisse: il bugiardo Ulisse [22], l’Ulisse inventore di crimini [23],
l’Ulisse istigatore di misfatti [24], perverte la natura razionale
dell’uomo e l’oggetto della sua volontà.
Quella canoscenza che Ulisse proclama di volere e di dover seguire non è la vera conoscenza; né è vera virtù, cioè bene morale, quella vertute cui si appella.
In nome della dignità umana si perde l’umanità.
Ed
il canto finisce con la disfatta di Ulisse, simbolo della disfatta di
una certa umanità, di un certo modo di vivere l’umanità. Nelle rimanenti
terzine (vv. 127-142) l’eroe infatti racconta a Dante il naufragio suo e
dei compagni.
Del otro polo todas las estrellas
vio ya la noche, y el nuestro tan bajo
que del suelo marino no surgía.
Cinco veces ardiendo y apagada
era la luz debajo de la luna,
desde que al alto paso penetramos,
cuando vimos una montaña, oscura
por la distancia, y pareció tan alta
cual nunca hubiera visto monte alguno.
Nos alegramos, mas se volvió llanto:
pues de la nueva tierra un torbellino
nació, y le golpeó la proa al leño.
Le hizo girar tres veces en las aguas;
a la cuarta la popa alzó a lo alto,
bajó la proa –como Aquél lo quiso–
hasta que el mar cerró sobre nosotros». [25]
L’equipaggio avvista l’unica terra
emersa dell’emisfero australe: è un monte altissimo. Si tratta della
montagna del Purgatorio, sulla cui vetta, secondo l’organizzazione
dantesca del mondo ultraterreno, è situato il paradiso terrestre,
richiamo ulteriore al peccato originale in questo canto.
Ulisse e i
suoi si rallegrano di questa vista. Una gioia fugace, subito convertita
in pianto. Notiamo qui come questa alternanza gioia-pianto porti con sé
un’altra antitesi fra gli Apostoli e Ulisse basata su un passo del
Vangelo di san Giovanni.
«En verdad, en verdad os digo, que vosotros lloraréis, y lamentaréis mientras el mundo se regocijará; os entristeceréis, pero vuestra tristeza se convertirá en gozo» [26].
Gli
Apostoli, già tristi e piangenti, si rallegreranno. Ulisse, gioioso del
suo successo, si rattristerà di una tristezza eterna, la tristezza del
peccatore, condannato a soffrire per sempre nell’inferno «donde será el llanto y el rechinar de dientes».
Un turbine infatti, eco virgiliano del naufragio di Oronte, percuote violentemente la barca e le fa fare tre giri su se stessa.
Il numero non è casuale: tre sono i «giri» attraverso cui nel canto XXXIII del Paradiso la Trinità appare a Dante.
L’immagine
trinitaria, collegata al naufragio non è evidentemente una suggestione.
Che il naufragio sia una punizione disposta da Dio è chiaro da quella
lapidaria espressione che chiude il v. 141: «com’è altrui piacque», che
indica la suprema volontà di Dio.
Il canto si chiude con
l’inabissamento della barca, di Ulisse e dei suoi compagni: un’immagine
che fa evidentemente da contraltare all’ascensione del profeta Elia,
menzionata all’inizio del canto ai vv. 34-39, ma non solo.
Vi è
infatti un’altra ascensione che si contrappone alla discesa di Ulisse: è
la salita di Dante lungo le falde della montagna del Purgatorio.
Ove
ha fallito miseramente il folle volo del legno di Ulisse, riesce la
navicella dell’ingegno di Dante, secondo l’espressione proemiale del
primo canto del Purgatorio [27].
Perché questo?
Perché Dante
riconosce i limiti della sua umanità, allegoricamente significati da
quei riguardi erculei oltrepassati da Ulisse; non poggia la grandezza
della dignità umana solo sulla ragione naturale, come Ulisse; ma
accoglie l’influsso della grazia, invita noi –non va infatti mai
dimenticato il fine anche didascalico del poema– a seguire veramente vertute e canoscenza.
Ci
invita cioè a mirare a conoscere la Verità e ad uniformare la nostra
mente, il nostro intelletto ad essa, e ad avere come oggetto della
volontà il Bene, e così, vivendo secondo la nostra natura di essere
razionali, veramente liberi, di quella libertà che «si ha de tener nombre verdadero de libertad en la sociedad misma, no ha de consistir en hacer lo que a cada uno se le antoje […] sino en que por medio
de las leyes civiles pueda cada uno fácilmente vivir
según los mandamientos de la ley eterna» [28].
Il tutto, tenendo conto inderogabilmente della grazia,
che «ilustrando al entendimiento e impeliendo al bien moral a la
voluntad, robustecida con saludable constancia, hace
más expedito y juntamente más seguro el ejercicio de la libertad nativa» [29], senza menomarla, per il fatto
che «es íntima en el hombre y congruente con la propensión natural, porque
dimana del
mismo Autor de nuestro entendimiento y de nuestra
voluntad, el cual mueve todas las cosas según conviene a la naturaleza
de cada una. Antes bien, como advierte el Doctor Angélico, la gracia
divina, por lo mismo que procede del Hacedor de la naturaleza, está
creada y acomodada admirablemente para proteger
cualesquiera naturalezas y conservarles sus inclinaciones, su fuerza, su
facultad de obrar» [30].
Un
insegnamento dantesco di una attualità notevole, circondati come siamo
dalle rovine spirituali e temporali di una umanità tristemente
naufragata nell’oblio di Dio e quindi di se stessa.
NOTAS
[1] Inf. I, 117.
[2]
«Quante lucciole vede giù nella valle il contadino che riposa sul
colle, nella stagione in cui il sole, splende più a lungo, là dove egli
vendemmia e ara, quando la mosca cede il posto alla zanzara, di
altrettante fiamme brillava l’ottava bolgia, così come io potei vedere
appena giunsi là dove si poteva vedere il fondo».
[3] «E come il
profeta Eliseo, che si vendicò per mezzo degli orsi, vide il carro di
Elia alla partenza, quando i cavalli si alzarono verso il cielo, così
che non lo poteva seguire con lo sguardo, non vedendo altro che un’unica
nuvola: allo stesso modo si muove ciascuna fiamma nell’angusto fondo
della bolgia, perché nessuna fa vedere l’anima dannata, e ciascuna
nasconde un peccatore». Oltre al rapimento di Elia (cf. 4 Reg.
II, 11-12), un ulteriore episodio biblico è qui impiegato da Dante. La
perifrasi che compone il verso 34 e che parla del profeta Eliseo, fa
riferimento al castigo divino che si abbatté su quarantadue ragazzetti
di Bethel che si prendevano gioco della calvizie di lui e che perciò
dallo stesso maledetti, furono improvvisamente assaliti da due orse che
ne fecero il loro pasto (cf. 4 Reg. II, 23-24).
[4] «Nelle fiamme ci sono gli spiriti: ciascuno è avvolto dal fuoco da cui è bruciato».
[5]
«Chi c’è in quella fiamma che avanza così divisa nella parte superiore,
che sembra levarsi dal rogo funebre su cui fu messo a bruciare Eteocle
assieme al fratello Polinice?». La terzina è costruita a partire da
precise immagini presenti nella Tebaida de Stazio: «exúndant divíso vértice flammae» (XII, 431) e nella Farsalia di Lucano: «ignis et … flamma / scindítur in partes géminoque cacúmine surgit» (I, 551-552).
[6]«Dentro
quella fiamma sono puniti Ulisse e Diomede, che sono uniti nella pena
così come insieme incorsero nell’ira divina; e dentro la fiamma viene
punito l’inganno del cavallo di legno con cui fu conquistata Troia, che
fu la causa da cui trasse origine la nobile stirpe dei Romani. Dentro la
fiamma si piange l’astuzia per la quale Deidamia, benché morta, ancora
soffre per Achille; e si soffre per il furto del Palladio».
[7] «La
punta più alta dell’antica fiamma cominciò ad agitarsi mormorando,
proprio come una fiamma agitata dal vento; poi, muovendo qua e là la
cima, come fosse una lingua che parlasse, emise una voce, e disse».
[8] Jac. III, 5-6.
[9] Act. II, 3-4, 11.
[10]«Quando
mi allontanai dalla maga Circe, che mi trattenne per più di un anno
presso Gaeta, prima che Enea chiamasse così quel luogo, né l’amore
paterno per Telemaco, né il rispetto per il vecchio padre Laerte, né il
legittimo amore per la moglie Penelope, che avrebbe dovuto renderla
felice, poterono vincere in me l’ardore che io ebbi a fare esperienza
del mondo in tutti i suoi aspetti negativi e positivi; ma mi spinsi nel
mare sconfinato, con una sola nave e con quei pochi compagni da cui non
fui mai abbandonato».
[11] I vv. 92-93 dipendono da Ovidio, Metamorph., XIV. I vv. 94-96 dipendono da Virgilio, Aen., II, 666 dove, nel contesto della partenza di Enea da Troia, troviamo la stessa successione delle figure familiari: «Ascánium pátremque meum júxtaque Créusam». Ulteriori fonti dei medesimi versi danteschi sono Cicerone, De off., III, 26; Ovidio, Her., I, 97-98; Seneca, Epist. ad Luc. XIII, 88, 7. I vv. 98-98 sono palesi riprese oraziane: da Ars poëtica 141-142 e Ep. I, II, 17-22; ma rimandano anche a Cicerone De fin. V, 18.
[12] «Vidi
l’uno e l’altro litorale del Mediterraneo, fino alla Spagna, al Marocco
e alla Sardegna e alle altre isole che quel mare bagna. Io e i miei
compagni eravamo oramai vecchi e stanchi quando giungemmo presso quello
stretto passaggio dove Ercole pose quei suoi limiti, affinché l’uomo non
li oltrepassi; alla mia destra lasciai Siviglia, a sinistra avevo già
lasciato Ceuta».
[13] Particolarmente interessante risulta la ricerca
delle fonti, attraverso cui Dante costruisce il viaggio oceanico di
Ulisse, che vanno da Seneca a Solino, passando per Plinio il Vecchio
fino alle vicende di Ugolino e Vadino Vivaldi, naufragati nello stretto
di Gibilterra mentre si apprestavano a raggiungere l’India da Occidente.
Parimenti degna di considerazione è la disputa, antica come moderna, a
riguardo della determinazione del reale sito delle Colonne d’Ercole e
del punto di partenza del viaggio dell’Ulisse dantesco.
[14] «Résides et desuetúdine tardi» (XIV, 436-437).
[15]«Ora,
figliuolo mio, la causa di una così lunga esclusione dal giardino non
fu di per sé l’aver mangiato il frutto proibito, ma solamente l’aver
violato il limite posto da Dio» Par. XXVI, 115-117.
[16] Gen. II, 17.
[17] «“O
fratelli”, dissi, “che attraverso infiniti pericoli siete giunti al
limite occidentale del mondo, non vogliate negare a questa tanto piccola
parte della vita sensibile che ci rimane l’esperienza del mondo
disabitato, seguendo il corso del sole. Considerate attentamente la
vostra origine: non foste creati per vivere come animali, ma per
conseguire virtù e conoscenza. Con questo breve discorso io resi i miei
compagni così fortemente desiderosi di riprendere il cammino, che a
stento subito dopo li avrei potuti trattenere; e rivolta la poppa a
levante, trasformammo i nostri remi in ali per il volo folle, avanzando
sempre verso sinistra».
[18] Conv. IV, VII, 11.
[19] Gen.
II, 7. In greco: «Kαὶ ἔπλασεν ὁ θεὸς τὸν ἄνθρωπον χοῦν ἀπὸ τῆς γῆς καὶ
ἐνεφύσησεν εἰς τὸ πρόσωπον αὐτοῦ πνοὴν ζωῆς καὶ ἐγένετο ὁ ἄνθρωπος εἰς ψυχὴν ζῶσαν». In latino: «Formávit ígitur Dóminus Deus hóminem de limo terrae, et inspirávit in fáciem ejus spiráculum vitae, et factus est homo in ánimam vivéntem».
[20] Liber de persona et duabus naturis contra Eutychen et Nestorium, III, Migne, PL 64, 1343.
[21] Cfr. Il Vecchio Testamento commentato dal P. Marco M. Sales O.P., Professore all’Università di Friburgo (Svizzera), Volume I, Genesi-Esodo-Levitico, Torino, 1919.
[22]«fandi fictor» (Verg., Aen., IX, 602).
[23]«scélerum invéntor» (Verg., Aen., II, 164).
[24]«hortátor scélerum» (Ovid., Metam., XIII, 45).
[25] «La
notte già faceva vedere tutte le stelle dell’emisfero australe e quelle
dell’emisfero boreale erano così basse che non emergevano sulla
superficie del mare. Cinque volte si era accesa e altrettante spenta la
luce sotto la luna, da quando avevamo oltrepassato le Colonne d’Ercole,
quando ci apparve una montagna, scura per la distanza, e mi sembrò così
alta quanto non ne avevo mai vista nessuna. Noi ci rallegrammo, ma
subito la gioia si mutò in pianto, poiché dalla terra appena avvistata
si sollevò un turbine, che colpì la prua della nave. La fece girare tre
volte su se stessa insieme alle acque; alla quarta fece sollevare in
alto la poppa e fece affondare la prua, come volle Dio, finché il mare
si richiuse su di noi».
[26] Joan., XVI, 20. Nel contesto
della cosiddetta “preghiera sacerdotale” pronunziata durante l’Ultima
Cena, Gesù Cristo fa riferimento alla passione che sta per vivere:
«Lloraréis y gemiréis cuando me veáis en mano de mis enemigos condenado y clavado en la cruz. El mundo entonces gozará creyendo haber triunfado de mí y de mi doctrina; y estaréis inmersos en la más profunda aflicción; pero muy pronto vuestro corazón será inundado de gozo, cuando me veréis resucitado» (Il Nuovo Testamento commentato dal P. Marco M. Sales O.P., Professore di Sacra Scrittura al Collegio Angelico di Roma, Vol. I. I quattro Evangeli – Gli Atti degli Apostoli, Torino, 1911, p. 425).
[27] «Por surcar mejor agua alza las velas / ahora la navecilla de mi ingenio, / que un mar tan cruel detrás de sí abandona» (Pg. I, 1-3).
[28] Leone XIII, Enciclica Libértas, 20 de Junio de 1888.
[29]Ibidem.
[30]Ibidem.
Esto no está traducido don Jorge.
ResponderEliminarFuera de eso, estaría interesante que trajese más análisis de textos para-bíblicos, hay lecciones edificantes dentro de algunos clásicos de la literatura, desde Beowulf hasta la Araucana, epopeyas de las que no se habla mucho hoy en día.
Estaremos trabajando en ello, Dios mediante, antes de la pausa de mitad de Agosto, aniversario de fundación de esta tribuna.
EliminarGracias, sus entradas mas docéticas son mis favoritas, me suben el ánimo que las noticias me bajan. Incluso las entradas que son devocionales pero que tienen información me son muy gratas, como esta:
Eliminarhttps://wwwmileschristi.blogspot.com/2020/03/mes-de-marzo-en-honor-de-san-jose-dia.html
Explorar en blogger es más bien obtuso, no sería mucho pedir que hiciera algo como un catalogo aparte? Quisiera poder leerlas en cualquier momento aunque no tenga internet; y si las pone en un drive como archivos .pdf?